sabato 14 luglio 2012

Calabria: la situazione lavorativa nei call center

Questa è la prima puntata di un reportage sulle condizioni di lavoro nei call center. Oggi riportiamo la testimonianza di Franca Maltese che ne ha sperimentato, come molti altri/e calabresi, le penose  condizioni di  lavoro. Un'esperienza che accomuna circa 10.000 persone in Calabria. Si tratta dell'ennesima usurpazione di risorse umane e di fondi pubblici. A queste imprese di rapina, infatti, la Regione Calabria ha generosamente stornato milioni di euro di fondi europei destinati alla creazione di lavoro.  Di questo crediamo debbano dare conto  quelli che hanno in mano le leve del comando regionale in vista di un radicale ripensamento delle politiche occupazionali e del welfare.


DIMENSIONE CALL CENTERCOME SACRIFICARSI PER GUADAGNARE UN OBBLIGO
DIARIO DI BORDO DI UN’ESPERIENZA


Ecco cosa vi chiedo. Se una sera o una domenica, improvvisamente, vi fa male dover sempre chiudere in voi stessi quel che vi pesa sull’anima, prendete carta e penna. Non cercate frasi difficili. Scrivete le prime parole che vi verranno in mente. E dite che cos’è per voi il vostro lavoro.
Dite se il lavoro vi fa soffrire, raccontate quelle sofferenze, e siano tanto quelle morali quanto quelle fisiche.
Dite se ci sono momenti che non ne potete più; se talvolta la monotonia del lavoro vi disgusta; se soffrite di essere sempre preoccupati dalla necessità d’andar presto; se soffrite di essere sempre agli ordini di un capo. (Simone Weil)

La mia è la storia di tanti altri. Precari, disoccupati, inoccupati e studenti una moltitudine di soggetti accomunati da un obiettivo: trovare lavoro. Non ho mai creduto alla favola del lavoro che nobilita l’uomo, questa affermazione me ne ricorda purtroppo un’altra altrettanto nefasta che recita “il lavoro rende liberi”. In realtà, il lavoro in molti casi rende schiavi, ci costringe in spazi e tempi che non avremmo mai voluto ci appartenessero, ci priva di momenti di vita che non ci verranno mai più resi e, cosa peggiore, divora le nostre passioni trasformandole in hobby che solo i più fortunati riescono in qualche misura a coltivare tra un dopo cena e una domenica.

COLLOQUIO DI SELEZIONE: DA PRESCELTI PRIVILEGIATI A SCHIAVI DELLA CORNETTA

Ho ancora bene impresso in mente il mio primo giorno da operatrice di call center, avevo esaurito da un paio di mesi la mia purtroppo breve esperienza di supplente di italiano e ancora una volta mi ritrovavo senza lavoro e con le ben note spese di una fuori sede in una metropoli tanto ricca di stimoli e passioni multiculturali quanto costosa. Reduce dalle pregresse esperienze negative decisi di ritoccare il mio curriculum al ribasso, ossia eliminai la laurea e tutto quanto potesse far pensare ad un livello di qualifica tale da creare problemi all'ingranaggio lavorativo, funzionò, infatti il cellulare iniziò a squillare più volte al giorno. Gli annunci in grande maggioranza riguardavano la vendita, dal porta a porta al call center e in quest'ultimo mi ritrovai un po' per curiosità e molto per necessità.
Così ci si ritrova in trenta intorno ad un tavolo in attesa di essere sottoposti a rito selettivo, tutti dopo aver risposto all’ennesimo annuncio, tutti con la stessa speranza di iniziare un lavoro che però, da quello che emerge, non piace a nessuno ma, si sa, bisogna accontentarsi. La maggior parte laureati, pentiti di aver perso tempo dietro un pezzo di carta che alla fine non li ha portati a nulla: “potevamo cercare lavoro prima, ora forse eravamo sistemati”, “non farò mai quello per cui ho studiato, ho perso solo tempo e soldi”, “il mondo funziona a raccomandazioni speriamo che almeno qua ci prendono”, “non mi è mai piaciuto il call center però dicono che qui assumono sempre”, “in giro non c’è niente se ti prendono conviene tenertelo stretto”, queste e altre simili le frasi di routine che ci si scambia nell’attesa che arrivi il selezionatore.
All’arrivo dell’addetto vige il silenzio e immediatamente anche i volti appaiono differenti, quello con cui avevi interloquito un minuto prima riscoprendo con piacere una vicinanza ti appare ora distante e freddo, è iniziata ufficialmente la battaglia tra poveri, non c’è più solidarietà che regga.
Veniamo informati del fatto che il colloquio si terrà in gruppo, ognuno esporrà davanti agli altri le proprie esperienze e poi ad un secondo giro di tavolo si simuleranno delle conversazioni telefoniche.
Il primo incontro è dunque conoscitivo, una trentina di anime intorno ad un tavolo che raccontano le loro esperienze lavorative e vengono analizzate come possibili unità da addestrare ad un lavoro che viene presentato come estremamente creativo, autonomo e con grandi possibilità di carriera e guadagno, ma che in realtà si rivelerà ben presto una gabbia mentale e fisica.
Ciò che notai immediatamente fu la sottomissione diffusa, evidente anche e soprattutto nel timore di chiedere quali fossero le condizioni economiche e contrattuali, come se l'esporsi in questo senso creasse il movente per non essere scelti. Tanto è grande il bisogno che anche un lavoro per tanti aspetti avvilente, retribuito con 2,50 euro all'ora, appare un qualcosa da rincorrere prostrandosi dinnanzi agli occhi dei selezionatori, fortunati ex-operatori (modelli da seguire) che hanno fatto carriera e che ora possono infliggere ad altri il trattamento a cui loro stessi furono sottoposti.
Prima di iniziare il nostro giro di tavolo ci viene descritto in modo generale il lavoro da svolgere, si parla di come farlo, degli orari, degli impegni da rispettare ma nessun accenno né al contratto né tanto meno alla retribuzione; mi guardo in giro per cercare uno sguardo complice ma la ricerca è vana. Eppure siamo lì tutti per lo stesso motivo, nessuno ha piacere ad esserci se non per la possibilità di portare a casa un minimo di stipendio, ma nessuno osa chiedere, forse per timore di suscitare una qualche riserva nei confronti del team leader o chissà per una semplice paura di esporsi per primo.
Faccio un altro giro di occhi e domando ciò che m’interessa, davanti alla mia richiesta si smuove qualcosa, gli altri occhi iniziano a cercare i miei, soprattutto quando le risposte fornite non hanno nulla di rassicurante: “delle condizioni contrattuali e della retribuzione si discuterà a fine colloquio”. Iniziamo così questo primo giro di tavolo, le esperienze di vita sono tante, tante le parti che si recitano e in tutte una medesima tristezza dettata dalla totale assenza di passione. Non avrei mai creduto, pensando alla mia condizione esistenziale, di dovermi sentire un giorno una privilegiata ma è accaduto più di una volta ed è accaduto in contesti assolutamente estranei al mio mondo e con questo mi riferisco a tutto l’apparato di sogni, desideri, aspettative e interessi che hanno da sempre riempito le mie giornate. Nel grigiore di uno scarno appartamento adibito a call center mi sono sentita una privilegiata ma non perché avevo passato una selezione, che ancora in realtà non sapevo di aver superato, piuttosto perché avevo fino a quel momento condotto la mia esistenza cavalcando delle passioni e queste anche nei momenti di sconforto avevano continuato a dare un senso alle mie giornate proiettandomi in una ricerca continua di altri mondi paralleli alla dimensione lavorativa, né subordinati, né di contorno ma sempre paralleli.
Secondo giro di tavolo, ci vengono distribuiti dei fogli con una serie di informazioni inerenti il prodotto da vendere e delle simulazioni di conversazione, una sorta di scaletta da seguire nell’approccio con il cliente. Ovviamente prima di procedere assistiamo ad una simulazione da parte di operatori senior e ci vengono date varie indicazioni. Alla fine di questo giro di rappresentazioni teatrali della vendita ci viene consegnato un modulo da compilare chi è interessato può compilarlo e restare per la seconda parte informativa chi no può andar via, tutto questo in un’economia temporale, tra pause caffè e altro, di 4 ore. Nessuno va via, si passa all’illustrazione delle condizioni contrattuali. Fisso mensile 300 euro, ore lavorative giornaliere 6, da lunedì a sabato, prima retribuzione allo scadere del sessantesimo giorno lavorato, firma del contratto dopo il periodo di prova della durata di una settimana non retribuita. Mi guardo intorno e percepisco avvilimento e delusione, occhi spenti che malgrado tutto continuano a sentirsi dei privilegiati perché infondo stanno per diventare degli occupati, certo in potenza ma come si dice meglio questo che niente.
Ad addolcire la pillola tutta una serie di bonus, possibilità di carriera e lauti guadagni, il fisso pare sia così basso proprio perché sono talmente tanti gli incentivi che si arriva a somme impensabili. Qualcuno va via, altri dicono che ci penseranno ma la maggior parte resta, infondo lo dice anche la ministra Fornero il lavoro non è un diritto ma va guadagnato con sacrificio.
È questo il sacrificio a cui si riferisce la ministra Fornero? Cancellare in pochi attimi le passioni e gli studi di anni di vita, dimenticare di avere il diritto di vivere il proprio tempo in modo utile e costruttivo in primo luogo per sè e poi sottoporsi ad una serie di pressioni psicologiche solo per poter guadagnare pochi euro al giorno che permettono a stento di coprire una serie di spese di mantenimento. Questo genere di obbligo lavorativo che la nostra società c'impone è una vera e propria forma di repressione delle idee e della libertà, non ci sono tutele effettive come non ci sono reali interessi da parte di un'intera classe politica omologata da destra a sinistra complice e fautrice di un tale sistema di sfruttamento.
Così, sotto quelle cuffie, covavo dentro di me un profondo sentimento di rabbia mentre cercavo di capire, dalle conversazioni con i colleghi, cosa spingesse tanta gente a non reagire e a non percepire il tutto come una grande ingiustizia, eppure nonostante le condizioni nessuno esprimeva il desiderio di cercare un'unione di rivendicazione comune. Anche durante le pause c'era la tendenza a socializzare pochissimo, quasi come se l'altro fosse sempre e comunque il rivale da superare. In questo gli "affiancatori" (figure guida nei primi giorni) furono molto bravi trasformando delle persone in operatori outbound: venditori a tutti i costi. La mia formazione fu travagliata, non tanto per la quantità d'informazioni da implementare piuttosto per l'approccio con il cliente, poco aggressivo e insistente secondo quella che era la loro modalità. Più volte pensai che erano sul punto di mandarmi via ma in realtà non lo fecero, decisero piuttosto di abbandonarmi e farmi provare da sola, anche perché la settimana di prova non era retribuita quindi non avevano nulla da perdere, per me fu una boccata d'aria di libertà liberarmi da quell'ombra angosciante che controllava ogni respiro pronta a ricordare ogni momento che eravamo lì per vendere un prodotto e quel prodotto andava venduto.
Ho visto a fine giornata persone avvilite e impaurite per non aver venduto nulla, ho ascoltato conversazioni telefoniche davvero distruttive verso se stessi e verso i clienti in termini di dignità e onestà ma ciò che mi ha fatto più male è stato constatare l'assenza di voglia di reagire. Il messaggio diffuso è che chi viene selezionato per questo lavoro è in questo momento un privilegiato, certo è un lavoro precario, senza diritti, senza tutele però dà accesso ad un guadagno, povero se vogliamo ma pur sempre meglio di niente. La mia esperienza si è svolta all'interno di un'azienda collegata, non so con quale forma contrattuale, a wind infostrada ma da successivi colloqui ho potuto constatare che le pratiche di addestramento e le modalità retributive variavano di poco da un'azienda all'altra.

L’INGANNO SVELATO: ESODO DA UNA FREGATURA
I primi giorni di lavoro li ricordo come esplorativi, oltre a cercare di imparare più in fretta possibile il meccanismo cercavo di capire rapidamente quali fossero le garanzie remunerative che quel contesto offriva. Aspettavo con ansia le pause per poter interagire con le mie colleghe e soprattutto facevo da spola tra vecchie e nuove. Non era semplice instaurare un rapporto di fiducia, per cui era difficile che si andasse oltre la banale conversazione. Era come se si creasse automaticamente un muro tra nuove leve e operatrici confermate, quasi come se le seconde temessero il subentrare delle prime. Più si andava avanti e più i volti diventavano cupi, si entrava sempre più dentro l’ingranaggio e il velo di dubbio sulla reale possibilità di trovarsi in un buon posto si disvelava davanti al trascorrere del tempo all’interno di quello squallido appartamento. Il lavoro era abbastanza ripetitivo, con un rapporto quasi maniacale con la cornetta, vedevo dita frenetiche digitare continuamente numeri, occhi fissare continuamente l’orologio con l’angoscia di non aver chiuso nessun contatto. Il tempo in certi casi diventava davvero un’ossessione, soprattutto se dopo aver impegnato 20 minuti in una conversazione non si riusciva a portare a casa il contatto. Parlo di contatto perché il nostro obiettivo era quello di fissare un appuntamento con il cliente, poi un addetto lo avrebbe ricontattato per la stipula del contratto e in caso di esito positivo il nostro lavoro veniva incrementato di bonus, in caso contrario non avevamo diritto a nulla.
Ognuno di noi aveva la sua lista e su questa bisognava annotare data, contatto (primo, secondo etc.) ed esito della chiamata, ben presto però ci si rendeva conto che anche quelle che apparivano come liste vergini in realtà erano contatti ripresi dopo un tot di tempo. Credo che una delle cose più frustranti fosse proprio la costrizione ai secondi e terzi contatti anche in caso di chiara richiesta dell’utente di non voler più essere richiamato. La gestione di quel call center imponeva di richiamare il potenziale cliente anche se questo con modi non troppo cordiali avesse manifestato fastidio. Una pratica, diffusa tra colleghi, di auto-difesa da insulti era quella di segnalare con una crocetta i numeri da evitare così da simulare la chiamata e poi riagganciare.
La sorveglianza del team leader era sempre molto vigile, veniva controllato ogni movimento e sguardo tra di noi e in caso di scambio di battute si era subito avvicinati.
Ogni giorno arrivava nuova gente e spariva qualche operatrice, i colloqui continuavano a ritmi incalzanti e man mano che si prendeva confidenza con il luogo ci si apriva a commenti e domande. Una mattina finalmente riuscii a parlare con Federica, un’operatrice al suo secondo mese di lavoro, le chiedo del contratto e delle condizioni lavorative, ma in realtà lei il contratto non lo aveva mai visto, le avevano chiesto la carta d’identità e il codice fiscale ma non aveva mai firmato nulla nè avuto nessun compenso. Le chiedo come mai continuasse a restare lì in queste condizioni e la risposta mi gelò: ‘‘meglio stare qui con la speranza di qualcosa che a casa con la certezza di niente“. Ma non tutti la pensavano come Federica e infatti in poco tempo l’esodo fu massiccio. Del mio gruppo ne restarono soltanto tre.

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