DIMENSIONE CALL CENTER: COME
SACRIFICARSI PER GUADAGNARE UN OBBLIGO
DIARIO DI BORDO
DI UN’ESPERIENZA
Ecco
cosa vi chiedo. Se una sera o una domenica, improvvisamente, vi fa male dover
sempre chiudere in voi stessi quel che vi pesa sull’anima, prendete carta e
penna. Non cercate frasi difficili. Scrivete le prime parole che vi verranno in
mente. E dite che cos’è per voi il vostro lavoro.
Dite
se il lavoro vi fa soffrire, raccontate quelle sofferenze, e siano tanto quelle
morali quanto quelle fisiche.
Dite
se ci sono momenti che non ne potete più; se talvolta la monotonia del lavoro
vi disgusta; se soffrite di essere sempre preoccupati dalla necessità d’andar
presto; se soffrite di essere sempre agli ordini di un capo. (Simone Weil)
La mia è la storia di
tanti altri. Precari, disoccupati, inoccupati e studenti una moltitudine di
soggetti accomunati da un obiettivo: trovare lavoro. Non ho mai creduto alla
favola del lavoro che nobilita l’uomo, questa affermazione me ne ricorda
purtroppo un’altra altrettanto nefasta che recita “il lavoro rende liberi”. In
realtà, il lavoro in molti casi rende schiavi, ci costringe in spazi e tempi
che non avremmo mai voluto ci appartenessero, ci priva di momenti di vita che
non ci verranno mai più resi e, cosa peggiore, divora le nostre passioni
trasformandole in hobby che solo i più fortunati riescono in qualche misura a
coltivare tra un dopo cena e una domenica.
COLLOQUIO DI SELEZIONE: DA PRESCELTI
PRIVILEGIATI A SCHIAVI DELLA CORNETTA
Ho ancora bene impresso
in mente il mio primo giorno da operatrice di call center, avevo esaurito da un
paio di mesi la mia purtroppo breve esperienza di supplente di italiano e
ancora una volta mi ritrovavo senza lavoro e con le ben note spese di una fuori
sede in una metropoli tanto ricca di stimoli e passioni multiculturali quanto
costosa. Reduce dalle pregresse esperienze negative decisi di ritoccare il mio
curriculum al ribasso, ossia eliminai la laurea e tutto quanto potesse far
pensare ad un livello di qualifica tale da creare problemi all'ingranaggio
lavorativo, funzionò, infatti il cellulare iniziò a squillare più volte al
giorno. Gli annunci in grande maggioranza riguardavano la vendita, dal porta a
porta al call center e in quest'ultimo mi ritrovai un po' per curiosità e molto
per necessità.
Così ci si ritrova in
trenta intorno ad un tavolo in attesa di essere sottoposti a rito selettivo,
tutti dopo aver risposto all’ennesimo annuncio, tutti con la stessa speranza di
iniziare un lavoro che però, da quello che emerge, non piace a nessuno ma, si
sa, bisogna accontentarsi. La maggior parte laureati, pentiti di aver perso
tempo dietro un pezzo di carta che alla fine non li ha portati a nulla:
“potevamo cercare lavoro prima, ora forse eravamo sistemati”, “non farò mai
quello per cui ho studiato, ho perso solo tempo e soldi”, “il mondo funziona a
raccomandazioni speriamo che almeno qua ci prendono”, “non mi è mai piaciuto il
call center però dicono che qui assumono sempre”, “in giro non c’è niente se ti
prendono conviene tenertelo stretto”, queste e altre simili le frasi di routine
che ci si scambia nell’attesa che arrivi il selezionatore.
All’arrivo dell’addetto
vige il silenzio e immediatamente anche i volti appaiono differenti, quello con
cui avevi interloquito un minuto prima riscoprendo con piacere una vicinanza ti
appare ora distante e freddo, è iniziata ufficialmente la battaglia tra poveri,
non c’è più solidarietà che regga.
Veniamo informati del
fatto che il colloquio si terrà in gruppo, ognuno esporrà davanti agli altri le
proprie esperienze e poi ad un secondo giro di tavolo si simuleranno delle
conversazioni telefoniche.
Il primo incontro è
dunque conoscitivo, una trentina di anime intorno ad un tavolo che raccontano
le loro esperienze lavorative e vengono analizzate come possibili unità da
addestrare ad un lavoro che viene presentato come estremamente creativo,
autonomo e con grandi possibilità di carriera e guadagno, ma che in realtà si
rivelerà ben presto una gabbia mentale e fisica.
Ciò che notai
immediatamente fu la sottomissione diffusa, evidente anche e soprattutto nel
timore di chiedere quali fossero le condizioni economiche e contrattuali, come
se l'esporsi in questo senso creasse il movente per non essere scelti. Tanto è
grande il bisogno che anche un lavoro per tanti aspetti avvilente, retribuito
con 2,50 euro all'ora, appare un qualcosa da rincorrere prostrandosi dinnanzi
agli occhi dei selezionatori, fortunati ex-operatori (modelli da seguire) che
hanno fatto carriera e che ora possono infliggere ad altri il trattamento a cui
loro stessi furono sottoposti.
Prima di iniziare il
nostro giro di tavolo ci viene descritto in modo generale il lavoro da
svolgere, si parla di come farlo, degli orari, degli impegni da rispettare ma
nessun accenno né al contratto né tanto meno alla retribuzione; mi guardo in
giro per cercare uno sguardo complice ma la ricerca è vana. Eppure siamo lì
tutti per lo stesso motivo, nessuno ha piacere ad esserci se non per la
possibilità di portare a casa un minimo di stipendio, ma nessuno osa chiedere,
forse per timore di suscitare una qualche riserva nei confronti del team leader
o chissà per una semplice paura di esporsi per primo.
Faccio un altro giro di
occhi e domando ciò che m’interessa, davanti alla mia richiesta si smuove
qualcosa, gli altri occhi iniziano a cercare i miei, soprattutto quando le
risposte fornite non hanno nulla di rassicurante: “delle condizioni contrattuali
e della retribuzione si discuterà a fine colloquio”. Iniziamo così questo primo
giro di tavolo, le esperienze di vita sono tante, tante le parti che si
recitano e in tutte una medesima tristezza dettata dalla totale assenza di
passione. Non avrei mai creduto, pensando alla mia condizione esistenziale, di
dovermi sentire un giorno una privilegiata ma è accaduto più di una volta ed è
accaduto in contesti assolutamente estranei al mio mondo e con questo mi
riferisco a tutto l’apparato di sogni, desideri, aspettative e interessi che
hanno da sempre riempito le mie giornate. Nel grigiore di uno scarno
appartamento adibito a call center mi sono sentita una privilegiata ma non
perché avevo passato una selezione, che ancora in realtà non sapevo di aver superato,
piuttosto perché avevo fino a quel momento condotto la mia esistenza cavalcando
delle passioni e queste anche nei momenti di sconforto avevano continuato a
dare un senso alle mie giornate proiettandomi in una ricerca continua di altri
mondi paralleli alla dimensione lavorativa, né subordinati, né di contorno ma
sempre paralleli.
Secondo giro di tavolo,
ci vengono distribuiti dei fogli con una serie di informazioni inerenti il
prodotto da vendere e delle simulazioni di conversazione, una sorta di scaletta
da seguire nell’approccio con il cliente. Ovviamente prima di procedere
assistiamo ad una simulazione da parte di operatori senior e ci vengono date
varie indicazioni. Alla fine di questo giro di rappresentazioni teatrali della
vendita ci viene consegnato un modulo da compilare chi è interessato può
compilarlo e restare per la seconda parte informativa chi no può andar via,
tutto questo in un’economia temporale, tra pause caffè e altro, di 4 ore.
Nessuno va via, si passa all’illustrazione delle condizioni contrattuali. Fisso
mensile 300 euro, ore lavorative giornaliere 6, da lunedì a sabato, prima
retribuzione allo scadere del sessantesimo giorno lavorato, firma del contratto
dopo il periodo di prova della durata di una settimana non retribuita. Mi guardo
intorno e percepisco avvilimento e delusione, occhi spenti che malgrado tutto
continuano a sentirsi dei privilegiati perché infondo stanno per diventare
degli occupati, certo in potenza ma come si dice meglio questo che niente.
Ad addolcire la pillola
tutta una serie di bonus, possibilità di carriera e lauti guadagni, il fisso
pare sia così basso proprio perché sono talmente tanti gli incentivi che si
arriva a somme impensabili. Qualcuno va via, altri dicono che ci penseranno ma
la maggior parte resta, infondo lo dice anche la ministra Fornero il lavoro non
è un diritto ma va guadagnato con sacrificio.
È questo il sacrificio a
cui si riferisce la ministra Fornero? Cancellare in pochi attimi le passioni e
gli studi di anni di vita, dimenticare di avere il diritto di vivere il proprio
tempo in modo utile e costruttivo in primo luogo per sè e poi sottoporsi ad una
serie di pressioni psicologiche solo per poter guadagnare pochi euro al giorno
che permettono a stento di coprire una serie di spese di mantenimento. Questo
genere di obbligo lavorativo che la nostra società c'impone è una vera e
propria forma di repressione delle idee e della libertà, non ci sono tutele
effettive come non ci sono reali interessi da parte di un'intera classe
politica omologata da destra a sinistra complice e fautrice di un tale sistema
di sfruttamento.
Così, sotto quelle
cuffie, covavo dentro di me un profondo sentimento di rabbia mentre cercavo di
capire, dalle conversazioni con i colleghi, cosa spingesse tanta gente a non
reagire e a non percepire il tutto come una grande ingiustizia, eppure
nonostante le condizioni nessuno esprimeva il desiderio di cercare un'unione di
rivendicazione comune. Anche durante le pause c'era la tendenza a socializzare
pochissimo, quasi come se l'altro fosse sempre e comunque il rivale da
superare. In questo gli "affiancatori" (figure guida nei primi
giorni) furono molto bravi trasformando delle persone in operatori outbound:
venditori a tutti i costi. La mia formazione fu travagliata, non tanto per la quantità
d'informazioni da implementare piuttosto per l'approccio con il cliente, poco
aggressivo e insistente secondo quella che era la loro modalità. Più volte
pensai che erano sul punto di mandarmi via ma in realtà non lo fecero, decisero
piuttosto di abbandonarmi e farmi provare da sola, anche perché la settimana di
prova non era retribuita quindi non avevano nulla da perdere, per me fu una
boccata d'aria di libertà liberarmi da quell'ombra angosciante che controllava
ogni respiro pronta a ricordare ogni momento che eravamo lì per vendere un
prodotto e quel prodotto andava venduto.
Ho visto a fine giornata
persone avvilite e impaurite per non aver venduto nulla, ho ascoltato
conversazioni telefoniche davvero distruttive verso se stessi e verso i clienti
in termini di dignità e onestà ma ciò che mi ha fatto più male è stato
constatare l'assenza di voglia di reagire. Il messaggio diffuso è che chi viene
selezionato per questo lavoro è in questo momento un privilegiato, certo è un
lavoro precario, senza diritti, senza tutele però dà accesso ad un guadagno,
povero se vogliamo ma pur sempre meglio di niente. La mia esperienza si è
svolta all'interno di un'azienda collegata, non so con quale forma
contrattuale, a wind infostrada ma da successivi colloqui ho potuto constatare
che le pratiche di addestramento e le modalità retributive variavano di poco da
un'azienda all'altra.
L’INGANNO SVELATO: ESODO
DA UNA FREGATURA
I primi giorni di lavoro
li ricordo come esplorativi, oltre a cercare di imparare più in fretta possibile
il meccanismo cercavo di capire rapidamente quali fossero le garanzie
remunerative che quel contesto offriva. Aspettavo con ansia le pause per poter
interagire con le mie colleghe e soprattutto facevo da spola tra vecchie e
nuove. Non era semplice instaurare un rapporto di fiducia, per cui era
difficile che si andasse oltre la banale conversazione. Era come se si creasse
automaticamente un muro tra nuove leve e operatrici confermate, quasi come se
le seconde temessero il subentrare delle prime. Più si andava avanti e più i
volti diventavano cupi, si entrava sempre più dentro l’ingranaggio e il velo di
dubbio sulla reale possibilità di trovarsi in un buon posto si disvelava
davanti al trascorrere del tempo all’interno di quello squallido appartamento.
Il lavoro era abbastanza ripetitivo, con un rapporto quasi maniacale con la
cornetta, vedevo dita frenetiche digitare continuamente numeri, occhi fissare
continuamente l’orologio con l’angoscia di non aver chiuso nessun contatto. Il
tempo in certi casi diventava davvero un’ossessione, soprattutto se dopo aver
impegnato 20 minuti in una conversazione non si riusciva a portare a casa il
contatto. Parlo di contatto perché il nostro obiettivo era quello di fissare un
appuntamento con il cliente, poi un addetto lo avrebbe ricontattato per la
stipula del contratto e in caso di esito positivo il nostro lavoro veniva
incrementato di bonus, in caso contrario non avevamo diritto a nulla.
Ognuno di noi aveva la
sua lista e su questa bisognava annotare data, contatto (primo, secondo etc.)
ed esito della chiamata, ben presto però ci si rendeva conto che anche quelle
che apparivano come liste vergini in realtà erano contatti ripresi dopo un tot
di tempo. Credo che una delle cose più frustranti fosse proprio la costrizione
ai secondi e terzi contatti anche in caso di chiara richiesta dell’utente di
non voler più essere richiamato. La gestione di quel call center imponeva di
richiamare il potenziale cliente anche se questo con modi non troppo cordiali
avesse manifestato fastidio. Una pratica, diffusa tra colleghi, di auto-difesa
da insulti era quella di segnalare con una crocetta i numeri da evitare così da
simulare la chiamata e poi riagganciare.
La sorveglianza del team
leader era sempre molto vigile, veniva controllato ogni movimento e sguardo tra
di noi e in caso di scambio di battute si era subito avvicinati.
Ogni giorno arrivava nuova gente e spariva qualche
operatrice, i colloqui continuavano a ritmi incalzanti e man mano che si
prendeva confidenza con il luogo ci si apriva a commenti e domande. Una mattina
finalmente riuscii a parlare con Federica, un’operatrice al suo secondo mese di
lavoro, le chiedo del contratto e delle condizioni lavorative, ma in realtà lei
il contratto non lo aveva mai visto, le avevano chiesto la carta d’identità e
il codice fiscale ma non aveva mai firmato nulla nè avuto nessun compenso. Le
chiedo come mai continuasse a restare lì in queste condizioni e la risposta mi
gelò: ‘‘meglio stare qui con la speranza di qualcosa che a casa con la certezza
di niente“. Ma non tutti la pensavano come Federica e infatti in poco tempo
l’esodo fu massiccio. Del mio gruppo ne restarono soltanto tre.
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