Pubblichiamo la recensione di
Giulio Ferroni apparsa sul numero di Alias del 20 maggio scorso del libro La
collina del vento con il quale Carmine Abbate ha vinto il Premio Campiello
Il libro di Carmine Abate, La collina del
vento (Mondadori, pp. 260, €17,50) può far pensare ad
altre recenti saghe familiari, come quelle di Antonio Pennacchi (Canale
Mussolini) o di Aurelio Picca (Se la fortuna è nostra), o alla storia di un
piccolo paese immaginario come quella di Sebastiano Vassalli (Le due chiese).
In effetti si tratta della storia di una famiglia contadina, gli Arcuri, entro
la storia di un piccolo paese dal nome immaginario, Spillace, ma collocato
entro una ben identificata zona della Calabria ionica, davanti a Punta Alice,
tra Cirò e Cirò Marina, dall’inizio del secolo fino a un tempo non direttamente
identificato, ma abbastanza vicino a oggi. Le vicende non si presentano però
secondo un filo lineare, ma sono progressivamente ricostruite attraverso un
punto di vista presente, quello del narratore, che ormai ha abbandonato la
Calabria e vive nel Trentino, e viene lì a Spillace a trovare il padre
Michelangelo, che in un’ansia di continuità familiare e di «verità» ripercorre
le varie vicende, che sembrano prendere avvio da un oscuro episodio datosi
all’inizio del secolo (una cosa vista dal nonno Arturo bambino) restato a lungo
come un «segreto» nella vita familiare e di cui si arriverà a conoscere,
appunto, la «verità », solo verso la fine, dalle parole di Michelangelo (e
l’ansia della verità viene chiamata in causa fin da una citazione da Canetti,
posta in epigrafe del libro). La storia della famiglia e del paese è anche una
storia di lavoro, del modo in cui generazioni di contadini lottano per rendere
sempre più fertile e produttiva una terra che sentono come parte di sé, una
storia di resistenza alle violenze che la grande storia carica su di essi (le
guerre mondiali, il fascismo), una storia di opposizione ai prepotenti che
agiscono più da vicino – come un barone locale, che diventa podestà durante il
fascismo e fa di tutto per impossessarsi della terra degli Arcuri), una storia
che segue le trasformazioni di quel mondo e del suo orizzonte sociale e
ambientale nel dopoguerra (con l’occupazione delle terre, le lotte contadine,
l’esito della riforma agraria) e nei decenni a noi più vicini (con il vario
business controllato dalla criminalità, dalle dissennate costruzioni di
villaggi turistici all’altrettanto folle invasione delle pale eoliche). E nello
stesso tempo è la storia di un legame fortissimo con un luogo, la «collina del
vento» che dà titolo al libro, il Rossarco, esposta ai venti e aperta verso il
mare, carica di colori e di profumi, di suggestioni e di segreti in cui la vita
degli Arcuri riconosce e identifica se stessa, afferma il proprio essere più.
Ma sull’orizzonte di questa vita contadina si sovrappone la traccia del lontanissimo passato storico della Magna Grecia: e sul romanzo contadino (che a tratti potrebbe far pensare a una coniugazione neorealistica) si proietta una sorta di romanzo «archeologico»: tutto ha origine dall’incontro, nella primavera del 1915, poco prima dell’entrata dell’Italia nella prima guerra mondiale, sulla collina del Rossarco, tra Alberto Arcuri (il padre di Arturo e dei suoi due fratelli che moriranno in guerra) l’archeologo trentino Paolo Orsi, che in quella zona cerca le rovine dell’antica Krimisa e del tempio di Apollo Aleo: si tratta di un personaggio reale, che per Carmine Abate costituisce così un punto di raccordo tra la sua Calabria e il Trentino (dove vive, come il suo narratore), e di cui ha potuto consultare vari documenti nella Biblioteca Civica Tartarotti di Rovereto. Negli anni ’20 Orsi ha effettivamente compiuto importanti ricerche e ritrovamenti nella zona di Punta Alice: il romanzo colloca sulla immaginaria collina del Rossarco i dati relativi a queste ricerche archeologiche, e fa affacciare a un certo punto la figura di un altro importante archeologo e meridionalista, Umberto Zanotti-Bianco. Tutto ruota così intorno a quella collina: la storia del mondo contadino calabrese del Novecento, nella sua distanza e nella sua intimità con quell’antico mondo cancellato e sepolto; il ritmo rovinoso del tempo che porta via le vite e le generazioni; la passione per i luoghi, per una natura resistente a tutte le lacerazioni, il cui rigoglio, i cui colori e profumi imperiosi, i cui frutti esuberanti sono come nutriti da ciò che essa nasconde nelle sue viscere. In questo orizzonte trovano poi spazio le vite e le passioni individuali, le occasioni di confronto che portano quel mondo ad uscire fuori di sé, a incontrare punti di vista diversi (Michelangelo Arcuri diventa maestro elementare e sposa un’archeologa torinese, la sorella emigra in Inghilterra e diventa pittrice, lo stesso narratore, come si è detto, vive nel Trentino con moglie tedesca, ecc.). Il libro intreccia variamente tutte queste prospettive, con momenti di narrazione tenuti sempre sul filo di una delicata misura, di una sorta di rispetto per lo scorrere della vita, per la consistenza degli esseri umani e per la concreta evidenza dell’ambiente e della fisicità. La continuità delle cose e delle presenze amate si vela spesso di inquietudine e di mistero: nella solitudine della campagna i personaggi possono avere la sensazione di essere seguiti da presenze reali o immaginarie. E c’è una figura simbolica che sembra costituire una sorta di emblema familiare e che si affaccia due volte, all’inizio e alla fine del racconto: si tratta di una «rondine albina» (che Abate garantisce sia effettivamente ritrovata da un suo parente). E in effetti dati simbolici e suggestione dei luoghi, segreti sepolti nella terra e ricerca di «verità » archeologiche e di «verità» su vicende familiari, con tutti i momenti della vita individuale e collettiva di cui si è detto, finiscono per dare all’intero libro e alla saga degli Arcuri qualcosa di fiabesco: la collina del vento, pur nei vari riferimenti alla realtà di oggi (che in alcuni casi, come per i richiami all’imprenditoria criminalizzante che vorrebbe impiantare pale eoliche, avrebbero potuto trovare uno sviluppo maggiore) si delinea alla fine come una sorta di luogo magico, che in sé concilia presente e passato, ultimo residuo di una forse non più possibile felicità.
Ma sull’orizzonte di questa vita contadina si sovrappone la traccia del lontanissimo passato storico della Magna Grecia: e sul romanzo contadino (che a tratti potrebbe far pensare a una coniugazione neorealistica) si proietta una sorta di romanzo «archeologico»: tutto ha origine dall’incontro, nella primavera del 1915, poco prima dell’entrata dell’Italia nella prima guerra mondiale, sulla collina del Rossarco, tra Alberto Arcuri (il padre di Arturo e dei suoi due fratelli che moriranno in guerra) l’archeologo trentino Paolo Orsi, che in quella zona cerca le rovine dell’antica Krimisa e del tempio di Apollo Aleo: si tratta di un personaggio reale, che per Carmine Abate costituisce così un punto di raccordo tra la sua Calabria e il Trentino (dove vive, come il suo narratore), e di cui ha potuto consultare vari documenti nella Biblioteca Civica Tartarotti di Rovereto. Negli anni ’20 Orsi ha effettivamente compiuto importanti ricerche e ritrovamenti nella zona di Punta Alice: il romanzo colloca sulla immaginaria collina del Rossarco i dati relativi a queste ricerche archeologiche, e fa affacciare a un certo punto la figura di un altro importante archeologo e meridionalista, Umberto Zanotti-Bianco. Tutto ruota così intorno a quella collina: la storia del mondo contadino calabrese del Novecento, nella sua distanza e nella sua intimità con quell’antico mondo cancellato e sepolto; il ritmo rovinoso del tempo che porta via le vite e le generazioni; la passione per i luoghi, per una natura resistente a tutte le lacerazioni, il cui rigoglio, i cui colori e profumi imperiosi, i cui frutti esuberanti sono come nutriti da ciò che essa nasconde nelle sue viscere. In questo orizzonte trovano poi spazio le vite e le passioni individuali, le occasioni di confronto che portano quel mondo ad uscire fuori di sé, a incontrare punti di vista diversi (Michelangelo Arcuri diventa maestro elementare e sposa un’archeologa torinese, la sorella emigra in Inghilterra e diventa pittrice, lo stesso narratore, come si è detto, vive nel Trentino con moglie tedesca, ecc.). Il libro intreccia variamente tutte queste prospettive, con momenti di narrazione tenuti sempre sul filo di una delicata misura, di una sorta di rispetto per lo scorrere della vita, per la consistenza degli esseri umani e per la concreta evidenza dell’ambiente e della fisicità. La continuità delle cose e delle presenze amate si vela spesso di inquietudine e di mistero: nella solitudine della campagna i personaggi possono avere la sensazione di essere seguiti da presenze reali o immaginarie. E c’è una figura simbolica che sembra costituire una sorta di emblema familiare e che si affaccia due volte, all’inizio e alla fine del racconto: si tratta di una «rondine albina» (che Abate garantisce sia effettivamente ritrovata da un suo parente). E in effetti dati simbolici e suggestione dei luoghi, segreti sepolti nella terra e ricerca di «verità » archeologiche e di «verità» su vicende familiari, con tutti i momenti della vita individuale e collettiva di cui si è detto, finiscono per dare all’intero libro e alla saga degli Arcuri qualcosa di fiabesco: la collina del vento, pur nei vari riferimenti alla realtà di oggi (che in alcuni casi, come per i richiami all’imprenditoria criminalizzante che vorrebbe impiantare pale eoliche, avrebbero potuto trovare uno sviluppo maggiore) si delinea alla fine come una sorta di luogo magico, che in sé concilia presente e passato, ultimo residuo di una forse non più possibile felicità.
Uno stupendo romanzo che ho avidamente letto da cirotano importato, che dopo questo importante riconoscimento letterario a Carmine Abate, possa essere studiato nelle scuole italiane e in particolare calabresi, per insegnare ai nostri ragazzi ad apprezzare i sacrifici e la durezza delle lotte dei nostri avi e la bellezza e magnificenza storica delle terre di Calabria
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