«Terre
comuni, una lotta necessaria in Calabria»
di S. Messinetti. – Cosenza
La proprietà collettiva è l’unica proprietà riconosciuta
ancora alle collettività locali. Una proprietà che è pubblica e privata, di
tutti e i nessuno. Che proviene alle genti per diritto naturale. Se girassimo
fra le montagne delle Marche e dell’Abruzzo, dell’Umbria e della Romagna, della
Garfagnana e del Casentino, dal nord al Sud di questa povera Italia, dall’arco
alpino ligure-piemontese al veneto-friulano, dai monti del Trentino fino
all’Appennino calabro e lucano vedremmo che la gente è orgogliosa di poter
fruire liberamente di questa proprietà. Liberamente! Forse perché questa
manifesta e caparbia pretesa di libertà sfugge al controllo pubblico delle
moderne istituzioni, essa è per questo malvista o volutamente non compresa dai
nostri governanti. Non si tratta di un patrimonio di scarso e residuale valore,
se l’Istat ha recentemente censito una realtà molto diffusa e variegata delle
aree collettive sul territorio nazionale, estesa per più di 1.103.000 ettari di
terreno (il 4,4% della Sau e l’8,85% della Sat in Italia. Purtroppo le
proprietà collettive vengono vendute e svendute, come sta purtroppo avvenendo
in alcuni contesti territoriali, dai Comuni che ne detengono l’amministrazione
attraverso una riduttiva e illegittima interpretazione dell’articolo 66 del
decreto cosiddetto Salva Italia, che li autorizza a vendere i beni agricoli ed
a vocazione agricola di loro proprietà. Tra questi non dovrebbero rientrare,
come invece in alcuni casi sta avvenendo, i beni soggetti a uso civico. Che
sono e continuano ad essere inalienabili, imprescrittibili e immutabili nella
loro destinazione agro-silvo-pastorale. Fin dal 2001 il governo ha individuato
nell’alienazione o privatizzazione di beni pubblici una delle misure per
contenere il debito in prospettiva della irraggiungibile crescita. Dal canto
loro gli enti locali, senza più un euro in cassa, pensano di coprire più di una
voce in bilancio vendendo pezzi di demanio o qualche bene pubblico. E possibile
decidere la vendita di questi eni comuni come se si trattasse di una merce come
un’altra? Senza che coloro che abitano i luoghi ove questi beni si trovano
siano chiamati ad esprimersi? E quali conseguenze questo comporta per il
benessere dei cittadini?
Elisabetta Della Corte è una sociologa dell’Università della
Calabria. Insieme ad altri ha costituito il Comitato Terrecomuni Calabria. «Perché in Calabria
più che altrove – spiega a il manifesto – questo processo di appropriazione e
mercificazione delle terre comuni, ha comportato uno sconvolgimento ancora più
profondo del tessuto urbano, proprio perché nella nostra regione i cosi detti
usi civici hanno un fondamento antico. Infatti essi non sono stati inventati da
un qualche diritto codificato o disposizione legislativa, ma sono nati già nel
Medioevo, come istituzionalizzazione dell’uso e della gestione dei territori
attorno alla città, i contadi, da parte delle Universitas che sono comunità che
hanno come ragione sociale la buona vita dei suoi membri. Tra l’altro quasi
sempre dalle universitas hanno avuto origine i comuni calabresi. Sicché gli usi
civici in Calabria andrebbero riguardati come ciò che è sopravvissuto all’opera
di modernizzazione dello stato nazionale che ha sostituito il diritto proprietario
della terra al suo uso, la legge alla regola, marginalizzando forme di vita
inventate collettivamente dalle moltitudini».
Riproporre l’attenzione verso il territorio non ha quindi
nulla di nuovo e di originale. Il territorio è definito dallo sguardo che su di
esso si posa. Così può essere un campo da seminare, una vigna da curare, quindi
percepito come suolo; può essere una distesa di ulivi che degrada verso il blu
del mare, quindi percepito come paesaggio; può essere la piazza del borgo,
incrocio delle diverse attività, quindi percepito come luogo, può essere quel
che resta di un insediamento dell’età classica, quindi percepito come sito
archeologico. «Gli
usi civici non sono oggi una sorta di romantica difesa di un passato contadino.
Essi hanno una straordinaria attualità. Non è un caso infatti che chi, oggi,
pone il tema dei beni comuni faccia riferimento proprio agli usi civici come
esempio concreto di questa pratica» sottolinea Della Corte.
Proprio su questo giornale un mese fa Alberto Lucarelli, assessore
ai Beni comuni del Comune di Napoli, aveva annunciato la raccolta di firme per
una proposta di legge di iniziativa popolare contro il cosiddetto decreto Salva
Italia del Governo Monti, che prevede, come detto, la dismissione dei beni
pubblici appartenenti allo Stato e agli Enti locali. «Occorre organizzare in tutt’Italia
una rete di resistenza alla privatizzazione del demanio agricolo, rete che
potrebbe formarsi proprio partendo da quella proposta di Lucarelli che va
rilanciata e generalizzata» ribadisce Della Corte. Infatti di fronte «alla crisi di
sistema che mette in causa le variabili strutturali della crescita economica
globale in quanto fattore di produzione di ricchezza» e la «crisi degli equilibri ambientali entro i
quali si sono alimentati in sequenza storica la narrazione del progresso e
dello viluppo fondati sulla crescita economica illimitata e sulla cosiddetta
tecno-scienza»,
non c’è che ritrovare il rapporto con il territorio. La lotta per le terre
comuni in Calabria non riguarda solo le terre demaniali ma va intesa come
riappropriazione del territorio da parte delle collettività che le abitano
contro che le considera uno spazio geometrico funzionale unicamente
all’estrazione di profitto piegando a esso la vita, la quotidianità, i saperi,
le passioni degli individui.
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