mercoledì 19 dicembre 2012

Paesaggio e decrescita


Comunicazione di Paolo Cacciari al convegno Il tramonto dell’Occidente, tenuto a Cagliari dal 9 all’11 novembre scorso 


Il legame tra “tutela del paesaggio” e “progetto della  decrescita” può essere molto stretto (intuitivo, persino banale) nella sua accezione fisica:  il paesaggio lo si difende innanzitutto facendo un uso rispettoso e accorto del suolo, programmando un “minor consumo del territorio” – come recita anche il Codice dei beni culturali e come si prefigge il nuovo ddl Monti-Catania. La decrescita, dal canto suo, è anzitutto la diminuzione dell’impronta ecologica delle attività antropiche.
Tra paesaggio ed ecologia ci sono legami ancora più profondi e fecondi.
Infatti, la nozione di paesaggio ci aiuta a capire che:
- natura e cultura sono inseparabili (sfidando qualche secolo di cultura illuministica, di ibris  tecnoscientifica e di delirio di onnipotenza della tecno-economia) (Marchetti);
- i “beni comuni”, quelli necessari ad un vivere dignitoso, sono correlati e concatenati (sfidando le separatezze dei saperi specialistici e delle discipline accademiche codificate) (Piero Bevilacqua);
- i processi di cambiamento hanno bisogno anche di una presa di “coscienza di luogo” (oltre che di classe, di genere, di generazione…) soggettiva e collettiva (sfidando due secoli di appartenenze politiche a “una dimensione”) (Magnaghi).

Il paesaggio: dove tutto si tiene
Per capire la nozione di paesaggio prendo a prestito la famosa metafora di John Ruskin  (“Il paesaggio è il volto amato della patria”), aggiornandola così: il paesaggio è il volto di una comunità ecologica, l’immagine di un sistema vivente in cui tutte le componenti antropiche e naturali, presenti e passate, sono poste in relazione (compreso l’osservatore, che ne fa parte integrante). Come scrive Tiziana Banini: il paesaggio è “l’espressione visibile dell’interazione unica e irrepetibile tra uomo e ambiente” (Banini).
In un paesaggio c’è quindi qualcosa che va oltre la somma delle sue singole, complesse, infinite componenti fisiche e storiche; c’è “un di più” inconoscibile con i soli strumenti di indagine analitico-descrittivi di tipo “scientifico”.
Il paesaggio non è un “ammasso di frammenti” (Consonni), non è fatto solo di “tutte le cose che vi si radunano”, ma anche “di tutte le idee con le quali vengono lette”, ordinate, vissute (Luciani). Per comprendere il senso di un paesaggio non bastano tutti gli specialisti di tutte le discipline, serve una “attitudine dialogica”. Uno sguardo d’insieme.  Serve “una razionalità sensibile e una ragione cordiale”, per dirla con Leonardo Boff.
La realtà che vediamo attraverso uno sguardo paesistico va oltre la sua evidenza fisica. E’ una immagine di una località che provoca emozioni, crea legami sentimentali, evoca ricordi di esperienze. Un paesaggio può essere bello o squallido, amichevole od ostile: gradevole, rasserenante, facilitare la socievolezza, oppure al contrario può apparire inospitale, provocare disagio psicologico, insicurezza, disgusto, “turbamento, dolore, rabbia”, per usare le parole di  Pasolini di fronte alle offese al comune “senso estetico” inferte dalla cementificazione attorno alle città antiche.
Il laboratorio della scuola dei territorialisti di Alberto Magnaghi sta facendo esperienze davvero straordinarie (Associazione Eco Filosofica, 2009) con la costruzione partecipata delle “mappe di comunità e paesaggio”, attraverso le quali avviene una autorappresentazione dei luoghi da parte degli abitanti.
Le persone che popolano (abitano o visitano) quel luogo sono collocate all’interno di quello stesso spazio, ne fanno parte. Sono allo stesso tempo soggetti osservatori e oggetti condizionati dal contesto.
Il paesaggio non è quindi, una “cartolina”, un “Belvedere”, un “cono visivo” (con un determinato angolo prospettico, come recitano i Piani paesaggistici regionali), ma un “paesaggio-ambiente-territorio” (Settis), un “paesaggio-luogo” (Bonesio, 2007) in cui le dimensioni fisiche, ambientali, storiche, culturali, estetiche formano un unicum inseparabile.
L’azione mentale che ci permette di vedere e riconoscere le cose che ci stanno intorno e che ci fa percepire un paesaggio come amichevole od ostile, confortevole o stressante, piacevole o alienante… è un procedimento cognitivo principalmente di tipo estetico. La realtà (per quanto complessa, articolata, sfaccettata…) ci appare a noi sempre all’inizio come un “unicum”.
Per riuscire a comprenderlo, è necessario possedere una capacità di lettura e una apertura mentale tale da riuscire ad elaborare una  visione d’insieme, nella sua  “totalità estetica” (Farinelli) e farci così esclamare: “che bello! Mi piace”. Oppure: “che orrore! Dio me ne scampi”.
Jane Adams (femminista, premio Nobel per la Pace, fondatrice  della Hull House di Chicago) ebbe a dire che ci sono casi di “contagio emotivo unito alla socievolezza” che nascono dal nostro innato “senso estetico” e che, per esempio, “ci spingono a chiamare alla finestra tutti coloro che si trovano in casa quando compare una processione per la strada o un arcobaleno nel cielo”. “Le esperienze fondamentali della vita umana” in grado di suscitare sensazioni di appartenenza sono “il rapporto con la terra e la natura, il sentimento religioso, l’amore”.
Nel paesaggio c’è forse anche qualcosa che va oltre lo stesso senso estetico. Ciò che è stato chiamato il “genius loci”, l’identità profonda dei luoghi, il loro carattere speciale e singolare, il loro “temperamento” e “personalità” che riescono ad essere percepiti dalle popolazioni insediate, dalle comunità che li abitano e, persino, dai visitatori occasionali.
Vi sono “connessioni sottili che attraversano natura e paesaggi che si estendono dal sensibile al sovrasensibile” (Scroccaro, 2007). Il “genius loci” appartenente ad una dimensione simbolica, metafisica e spirituale. (Per quanto abbia sempre inevitabilmente bisogno di essere ben supportato da determinate strutture fisiche). Il paesaggio è attraversato dal “soffio della vita”.
Se vogliamo essere più prosaici, se temiamo di essere fraintesi con l’esoterico e lo spiritualismo, possiamo allora prendere le parole della splendida sentenza della Corte Costituzionale (n.378 del 2007): “L’ambiente è un bene della vita, materiale e complesso, la cui disciplina comprende la tutela e la salvaguardia della qualità e degli equilibri delle sue singole componenti”.
Questi valori devono però essere percepiti e riconosciuti. “Il luogo non esiste per sé, ma solo se viene riconosciuto dalla comunità che lo popola” (Daniela Poli cit. da Luisa Bonesio in La sobrietà come stile di vita e valore identitario).
Se questo processo di riconoscimento e di identificazione (soggettivazione) con i luoghi non avviene, non si crea nemmeno quel rispetto per i territori di appartenenza, unica vera condizione di base per una loro salvaguardia, preservazione e presa in cura. Almeno che non si creda che l’opera di salvataggio del paesaggio, della natura, dei beni culturali sia una partita riservata a pochi eroici sovraintendenti statali, da una parte, contro i perfidi immobiliaristi cementificatori e speculatori, dall’altra. Il riconoscimento giuridico, costituzionale del paesaggio è destinato a rimanere lettera morta se i suoi valori non entrano nella cultura delle popolazioni insediate. I vandali sono in casa nostra, scriveva Antonio Cederna (“Vandali in casa”). I vandali siamo noi.
Scrive Scroccaro: “L’esperienza del ‘rispetto’ è un ingrediente indispensabile di una pratica rivolta alla cura del paesaggio; correlativamente, la carenza di sensibilità paesaggistica si inscrive nella più generale incapacità di praticare il rispetto nei confronti del mondo naturale e culturale. A questo proposito, prendiamo a prestito da Hillman (James Hillman, Politica della bellezza, Moretti e Vitali, 2002 p.55-56) l’espressione ‘ottundimento psichico’ per indicare l’anestesia disorientante che predomina attualmente” (Scroccaro, p.139). La dissoluzione dei luoghi procede di apri apsso con la “spoliazione del corpo” (Toesca), con la “morte del prossimo” (Luigi Zoia), con la perdita della soggettività individuale e delle relazioni affettive ed etiche con gli altri.
La perdita della capacità di riconoscere l’identità dei luoghi (l’indifferenza) non è diversa dall’incapacità di riconoscere se stessi come individui sociali. La distruzione dei luoghi non è un incidente, un eccesso di voracità di qualcuno, ma un obiettivo intrinseco del sistema economico dominate: recidere le relazioni tra l’individuo, l’ambiente, gli altri da se. Costringendo l’individuo nella sola dimensione produttiva/consumistica. Spaesamento, sradicamento sono effetti coerenti di una logica di dominio volta ad annichilire l’individuo. Così il territorio, spogliato dal paesaggio, sterilizzati i “genī loci”, diventa strumento neutro del potere economico, liberamente cartografabile, per esercitare il “terrere” sui sudditi, tracciare confini ed erigere enclousers dentro cui segregare i propri sudditi.
Scrive Magnaghi che la “coscienza di luogo” è la “capacità di riacquisizione dello sguardo sul luogo come valore, ricchezza, relazione potenziale tra individuo, società locale e produzione di ricchezza. Un percorso da individuale a collettivo in cui l’elemento caratterizzante è la ricostruzione di elementi di comunità in forme aperte, relazionali, solidali”.
La mia tesi, quindi, è che i veri progressisti, la sinistra sociale autentica, non debbano temere di rivendicare per tutti (ricchi e poveri, acculturati o selvaggi…) il diritto di coltivare ed esercitare il senso artistico, di partecipare al godimento estetico (contemplativo), di curare il proprio benessere culturale e spirituale e di pretendere la bellezza: cioè un ordine delle cose armonioso, equilibrato, confortevole, realizzante, socializzante.
Spesso si teme di chiedere troppo. Si dice che la pancia viene prima della mente e la mente prima del cuore.
Ed è un errore e una trappola fatale. (Edgar Morin non smette di ricordarcelo: siamo animali al 100% razionali e al 100% sentimentali). E’ proprio questo errore che il paradigma del paesaggio ci insegna a non commettere. Ogni scissione e gerarchizzazione dei bisogni, rompe l’interezza della natura umana e fa degli individui dei pezzi subalterni di un ingranaggio fuori dal loro controllo.
Produttori in fabbrica, consumatori al supermercato, abitanti-residenti a casa, turisti amanti del paesaggio in vacanza, cittadini alle elezioni… La vita si segmenta e perdiamo il suo senso.
“Reclamiamo il progresso della bellezza delle città e dei paesaggi, il progresso della purezza delle falde freatiche che forniscono l’acqua potabile, della trasparenza dei corsi d’acqua e della salute degli oceani. Esigiamo un miglioramento dell’aria che respiriamo, del sapore degli alimenti (…) La diminuzione della pressione eccessiva del modo di funzionamento occidentale sulla biosfera è una esigenza di buon senso e nello stesso tempo una condizione di giustizia sociale” (Latouche).
Acqua, vento, sole, prima di essere turbine, pale eoliche, pannelli solari, sono fragranza, profumi, luce.

 Il paesaggio oggi
Ogni paese ha il paesaggio che si merita (Settis).
Non ci sono discordanze sul giudizio da dare sui processi di “megalopolizzazione” in corso, che sono stati variamente definiti:, “enlarged city”, “campagna urbanizzata” (Giacomo Becattini), “urban sprawl” (Salzano), città diffusa, infinita, espansa, dilatata, sparpagliata…“Metroregione policentrica in rete” (Ernst Bloch, in: M.Davis), “Sistema urbano polinucleare” (Aldo Bonomi)…
I guasti prodotti da questo “non-modello” di urbanizzazione (“losangelizzazione”) sono stati straordinariamente descritti da Eugenio Turri, lungo la autostrada “A4”: “Una sterminata periferia senza forma e senza sentimento” (p.24), “un’ampia poltiglia”. “Dallo spazio – dalla quota dei satelliti -  ciò che risulta oggi (…) è anzitutto (…) una macchia che sembra simile ad un fenomeno cancrenoso, ad una escrescenza, una muffa, ciò che fa pensare alla antropizzazione come a qualche cosa di innaturale, ad una degradazione della biosfera” (Turri, p.46).
“La colata” di cemento sommerge ogni spazio libero. “Il saccheggio” procede. Il paesaggio sparisce: “Il capannone è il tipico edificio che più si ripete, il leit motiv. Solo piccolissimi varchi tra un edificio e l’altro permettono di gettare uno sguardo oltre la muraglia di capannoni” (Vallerani e Varotto).

 E’ possibile invertire la rotta?
Ci dobbiamo chiedere perché tutto ciò è potuto accadere? Di cosa dobbiamo veramente indignarci?
La mia tesi è che non sia solo per colpa degli  “eccessi speculativi”, del peso della rendita fondiaria (sempre denunciato da Salzano). Della sola attività immobiliare e della cricca dei costruttori (vedi le varie inchieste sui “sacchi” e sulle “colate”). Della sola corruzione politica. Dell’insipienza e incultura tecnica (Vezio De Lucia). Della sfortunata storia politica del nostro Paese: dalla Dc a Craxi a Berlusconi. Della Costituzione tradita (Settis).
C’è anche dell’altro. Ancora  più profondo, strutturale, grave e più difficile da contrastare ed eliminare.
La distruzione del paesaggio è la inevitabile conseguenza della preminenza dell’interesse economico su ogni altro valore, del dogma della crescita economica che ha soppiantato ogni altra visione del mondo. Dobbiamo sapere che è la stessa logica che travolge ogni campo del vivere umano: nel lavoro, deumanizzato, alienato; nella ricerca scientifica, finalizzata alla produzione di brevetti; nel “territorio”, ridotto a supporto inerte (“factum brutum”) (Settis) per ogni iniziativa capace di produrre valori monetari. I sindaci più bravi sono quelli che riescono ad attrarre maggiori “investimenti esteri”, le amministrazioni premiate sono quelle che offrono più opportunità insediative. Da qui una gestione del suolo che ha assecondato qualunque iniziativa economica e  un sistema normativo che ha lasciato la massima libertà di scelte localizzative.
C’è un filo rosso che lega ciò che avviene nei luoghi di lavoro (lavorare sempre di più in di meno), nei luoghi di studio e di ricerca (finalizzare gli insegnamenti e i piani di ricerca alla loro immediata utilizzabilità nei cicli produttivi), nei luoghi di vita (spezzare ogni rapporto dei nuclei familiari tra loro e con la campagna, la natura). E’ al logica della massimizzazione dei rendimenti economici. E’ il mito della efficienza fine a sé stessa. Della crescita per la crescita.
L’azione della difesa del paesaggio si inserisce, quindi, perfettamente nel quadro più generale (socio-economico e finanche antropologico e culturale) delineato dal progetto della decrescita: decrescere la dipendenza della società dalla logica del mercato capitalistico.
La difesa del paesaggio può costituire una molla concreta per attivare dei passi lungo la via della decrescita. Pensare alla tutela del paesaggio come un principale obiettivo/motore attivatore della decrescita.
Ma per fare diventare il paesaggio un punto di forza delle ragioni della decrescita è necessario sviluppare alcuni passaggi logici.
Innanzitutto mettersi d’accordo (non solo tra noi – troppo facile! – ma nel “comune buon senso”) su cos’è il paesaggio.
Poi includere “questo” paesaggio (“i beni paesaggistici” del Codice dei beni culturali e non solo)  tra i beni comuni da rivendicare e da sottrarre alle leggi del mercato. (Persino la Biennale di Venezia si è sentita in dovere di titolare l’edizione di Architettura di quest’anno: “Commonground”).
Infine decidere di “prenderlo in cura” (governarlo e gestirlo) in forme e modalità efficienti e condivise. Serve cambiare mentalità, atteggiamenti, regole, codici di funzionamento sociale.
Le esperienze pilote, le pratiche virtuose, i casi di gestione condivisa del bene comune territorio, villaggio, condominio, “città di città”… sono molti (Cacciari). Credo che per rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale, della bellezza dei paesaggi, della equità sociale e del “buon vivere”, si possa partire da qui. Il ventaglio delle azioni possibili è davvero ampio: si va dall’appello del progettista edile Tommaso Gamaleri che ha lanciato la campagna per l’obiezione di coscienza contro gli incarichi professionali di progetti di edifici su terreni non edificati, alle amministrazioni comunali che modificano i piani regolatori a “Zero consumo di suolo”. Dalla campagna “Salviamo il paesaggio”, alle “Transition town” (autosufficienza energetica). Dalla rete delle  “Slow city” (Angelo Vassallo, sindaco di Pollica, ne era il promotore in Italia), ai “Contratti di fiume”. Dal movimento per gli orti urbani collettivi, agli ecomusei, al turismo sostenibile e alla ospitalità diffusa. Dai Parchi agricoli multifunzionali legati alle Reti dell’altra economia e ai Gruppi di acquisto solidali, al movimento per la difesa degli usi civici. Dal cohousing, agli ecovillaggi, ai condomini solidali. Dai piani di bacino idrogeologici, alle bioregioni. Dagli innumerevoli movimenti di cittadinanza attiva, di cui i NoTav della Val di Susa sono un emblema, al laboratorio urbano della Scuola dei territorialisti che ci insegna come è possibile attivare processi di riappropriazione dei luoghi rigenerando relazioni e identità territoriali.
La città (urbs e civis, assieme) decrescente è tutto questo. Un grande movimento dal basso per sottrarre paesaggio-ambiente-territorio-luoghi alla logica economica del mercato.
(www.presididellasardegna.org).



 Bibliografia
Banini Tiziana, Il cerchio e la linea, Aracne, 2011.
Bevilacqua Piero, A che serve la storia? Donzelli, 2011.
Bonesio Luisa, Paesaggio, identità e comunità tra locale e globale, Diabasis, 2007.
Bonesio Luisa, La sobrietà come stile di vita e valore identitario in: Angelo Marino (a cura di) Tutela e valorizzazione del territorio come patrimonio culturale e identitario”, AEF Treviso 2009.
Cacciari Paolo (a cura di), Viaggio nell’Italia dei beni comuni, Marotta e Cafiero, Napoli, 2012.
Consonni Giancarlo, Il viandante e lo scienziato. La città tra ordo e oikos, in “La terra vista dalla luna”, n.1, 66-71, 1995.
Davis M., Città morte, 2005.
Luciani Domenico, Ragioni e azioni per il buongoverno dei luoghi, in Angelo Marino (a cura di) Tutela e valorizzazione del territorio, AEF Treviso, marzo 2009.
Farinelli Franco, L’invenzione della Terra, Sellerio, 2007.
Latouche Serge,  Altri mondi, altre menti, altrimenti. Oikonomia vernacolare e società conviviale. Rubettino, 2004.
Marchetti Laura, Il paesaggio dei valori comuni, in: Paolo Cacciari (a cura di), La società dei beni comuni, Ediesse, 2010.
Magnaghi Alberto, Oltre la globalizzazione, verso una municipalità allargata e solidale, in: Tutela e valorizzazione del territorio, AEF Treviso, marzo 2009.
Angelo Marino (a cura di) Tutela e valorizzazione del territorio come patrimonio culturale e identitario, AEF, Treviso, Marzo 2009.
Mattei Ugo, La nozione del comune, in: Paolo Cacciari (a cura di) La società dei beni comuni, Ediesse 2010.
Scroccaro Paolo, Sobrietà come stile di vita, in: Tutela e valorizzazione del territorio, AEF Treviso, marzo 2009.
Settis Salvatore, Paesaggio Costituzione cemento. La lunga battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Einaudi, 2011.
Salzano Edoardo,  L’habitat dell’uomo bene comune, in: Paolo Cacciari (a cura di) La società dei beni comuni, Ediesse 2010.
Toesca Pietro M. Il paesaggio impossibile, ovvero il mondo perduto, in Eupolis, n.35/2005.
Eugenio Turri, La megalopoli padana, Marsilio 2000.
Vallerani e Varotto, Il grigio oltre la siepe. Geografie smarrite e racconti del disagio in Veneto. Nuova dimensione, 2005.

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