venerdì 5 ottobre 2012

Orientalismo metropolitano


Una ricerca sul campo per decostruire la rappresentazione di Napoli come una città dominata da una plebe mancante di senso civico. «Tuff City» del ricercatore inglese Nick Dines. Un'area urbana omologata alla necessità della contemporanea divisione internazionale del lavoro. Una piramide sociale modellata secondo i vincoli imposti dai flussi produttivi della globalizzazione


(di Antonello Petrillo da il manifesto del 3 ottobre)

Nel panorama non vivacissimo della ricerca accademica italiana l'etnografia è spesso assai raccontata e assai poco praticata; lo stesso, più o meno, può dirsi di Napoli: poche città al mondo sono state tanto narrate. Basta dare un'occhiata agli scaffali di «saggistica» di una qualsiasi libreria: le oleografie a tinte forti della città e del suo malessere (dalle gomorreidi alla monnezza) se la giocano assai da vicino con vecchi e nuovi best seller quali il fondamentalismo islamico e la crisi. Eppure, non si può dire certo che le ricerche su una città tanto frequentata dai media si sprechino, anzi: nella letteratura scientifica Napoli è un'aura, un serbatoio semantico e simbolico di grande suggestione patentemente privo di data collecting. La ponderosa ricerca di Nick Dines nasce, perciò, sotto un segno doppiamente felice e atteso, di metodo e di merito. Tuff City. Urban Change and Contested Space in Central Naples (Berghahn Books, New York, Oxford, pp. 348) è infatti, per metodo, un libro all'antica e molto anglosassone - meticolose e lunghe indagini sul campo condotte con rigore assoluto - e insieme un libro dai contenuti straordinariamente innovativi rispetto alle letture mainstream sulla città.
Dal punto di vista temporale gli anni di riferimento sono quelli del cosiddetto «Rinascimento napoletano», ossia gli anni del bassolinismo vincente e della grande empatia della città con il sistema mediatico nazionale e internazionale. I luoghi, tre aree centrali estremamente significative nel discorso pubblico di quegli anni: Piazza del Plebiscito, l'area della Stazione Centrale e Montesanto. Sin dalle prime pagine, la ricerca appare agire come un potente strumento di decostruzione degli ordini di discorso vigenti sulla città. L'arretratezza atavica, il plebeismo violento, la passività senza rimedio e le passioni senza freno, l'irreparabile lack of civicness. hanno conosciuto declinazioni e accenti differenti nel corso del tempo, ma costituiscono nondimeno un sottofondo costante di tutte le narrazioni di Napoli.
Arcaici stereotipi
Le ragioni di funzionamento di tale macchina narrativa sono profonde e non di rado assai risalenti, ancorate ben al di là di qualche lazzo calcistico o delle periodiche, intemerate incursioni della Lega Nord nei territori impervi della storia e della geografia. Sin dall'inizio della modernità, infatti, è possibile assistere al costituirsi della città come uno di quei luoghi-specchio per l'esaltazione a contrario dei processi di trasformazione produttiva, politica e civile che attraversavano l'Europa e, insieme, per l'esorcizzazione dei pericoli che la rivoluzione industriale recava con sé sul piano sociale. Nel Settecento, in special modo, Napoli diviene simbolo delle radici profonde e arcaiche dell'Europa, uno dei luoghi nei quali il passato si rende più plasticamente evidente agli occhi dei viaggiatori del Grand Tour ed è possibile scegliere con definitiva chiarezza tra ciò che la modernità deve imprescindibilmente portare con sé -lo «spirito dei classici», scolpito nei marmi delle ruines - e ciò che deve definitivamente espungere, l'atavismo sauvage inciso nei volti della sterminata plebaglia della città. Parallelamente, proprio l'estensione di tale plebe, i caratteri di miseria e affollamento con i quali si accalca in uno spazio urbano pur fra i più vasti del continente, evocano alla vista allarmata delle borghesie europee i rischi della concentrazione abitativa propria dei tempi nuovi: epidemie, tumulti, sedizioni, proliferazione di crimine e illegalità diffusa - la quale si sta costituendo proprio allora come bersaglio di saperi e tecniche specifiche - incontrano fatalmente a Napoli il loro catalogo più ricco. Appena più tardi, frugando con ostinazione e toni da romanzo gotico i «bassifondi» della città, è ancora a Napoli che il positivismo troverà molte fra le sue maschere migliori per la rappresentazione dei ceti popolari caparbiamente irriducibili alle ragioni della modernità industriale e dell'unità risorgimentale. Abele De Blasio, per esempio, allievo di Lombroso, ne fu - tra i tanti - instancabile cacciatore, reperendo tra vicoli e commissariati uno sconfinato repertorio di camorristi, lazzaroni, finti storpi e donne delinquenti pronti da classificare e restituire in tavole ben ordinate.
A partire dal secondo dopoguerra, le scienze sociali non cederanno completamente le plebi napoletane al cinema neorealista (i famosi casting all'Hotel Terminus), bensì le riconvertiranno in un nuovo ordine discorsivo. Se la ricerca antropologica ed etnografica vera e propria imboccherà sempre più decisamente le vie del folklorismo e degli studi sulla religiosità popolare, le suggestioni di Banfield e Friedmann intorno al «familismo amorale» e alla mancanza di «cooperazione sociale» e soprattutto quelle successive di Putnam sulla cronica assenza di «civismo» polarizzeranno a lungo, come l'ago di una irrinunciabile bussola, l'insieme dei discorsi sociologici e politologici (oltreché mediatici) su Napoli e dintorni. Prova ne sia il tenore del dibattito che ha accompagnato ancora recentemente la crisi della stagione bassoliniana, ingloriosamente segnata dall'«emergenza criminalità» e dall'«emergenza rifiuti». Al di là delle accuse personalistiche di inettitudine e corruzione al sindaco/governatore, il tema dell'«individualismo meridionale» - contrapposto all'«organizzazione sociale» del nord (e oggi dell'«Europa») - ha permesso una volta di più di leggere tali vicende nel quadro utile e rassicurante di uno scenario unico: Napoli come eterno teatro dello scontro fra civiltà e barbarie, progresso e sottosviluppo. Se la civiltà oppone il pubblico al proprio, il generale al particolare, il sottosviluppo è prima di tutto una questione morale: l'arretratezza soggettiva può ben spiegare quella oggettiva. Il dispositivo di ricerca messo a punto da Dines mira innanzitutto a infrangere questo mito dell'unicità antropologica della città come eziologia infallibile della sua storia e del suo presente (quando non del suo futuro).
Cartografie del potere
Assai prossimo alla tradizione di postcolonial e subaltern studies, l'autore non solo mostra come l'operazione di essenzializzazione/naturalizzazione dei drammi della città sia tutt'altro che innocente - Italy's «Southern Question». Orientalism in One Country recitava il titolo di un bel libro curato parecchi anni fa da J. Schneider (Oxford-New York, Berg, 1998) - ma ci restituisce con limpida chiarezza ciò che il gioco nasconde: lo spazio urbano come luogo di inequivocabili contese, terreno principe dei conflitti fra blocchi d'interesse e gruppi sociali, secondo l'immortale lezione di Pierre Bourdieu. A uno sguardo più attento, i tòpoi della narrazione ufficiale su Napoli coincidono dunque, millimetricamente, con le cartografie della società e del potere. Al di là dell'evidente parentesi di discontinuità nei modelli di narrazione mediatica della città all'epoca del «miracolo» bassoliniano, tale miracolo fu davvero immune dai rischi di un orientalismo interno? Di più, quali furono gli atteggiamenti reali della politica di quegli anni rispetto alle consolidate cartografie sociali della città? Partendo dalla coda, sappiamo ormai che quella stagione non ha spostato minimamente gli equilibri profondi del potere in città: nuovi potentati sono emersi, certo, sostituendo parzialmente i vecchi, ma la struttura sociale è rimasta tragicamente la stessa, ampliandosi semmai i confini della disperazione e del disagio. Non si tratta, banalmente, di constatare per l'ennesima volta che il bassolinismo è stato essenzialmente una «politica d'immagine»: Tuff City getta un potente fascio di luce proprio sul legame che le immagini della politica - ergo, i suoi immaginari - intrattengono con la materialità delle scelte.
Le parole d'ordine di quegli anni (riqualificazione, rigenerazione, rinascimento), l'enfasi posta su concetti quali creatività e qualità della vita e sulla riappropriazione di dimensioni quali il pubblico, la cittadinanza, il civico, il civile, le stesse denominazioni dei nuovi assessorati (Vivibilità, Normalità, Dignità, Identità) non sono refrain di una propaganda ben orchestrata. Sono atti linguistici altamente performativi: trasformano la realtà che nominano spostando il bersaglio dell'azione politica. Né si tratta soltanto di deindustrializzazione e rilancio turistico: in gioco era il riallineamento della città alle direttrici di una profonda trasformazione dei centri urbani che ha interessato l'intero pianeta, da Barcellona a Marsiglia, a Istanbul, a Mosca. Oggi sappiamo con certezza che ciò che chiamiamo «globalizzazione» non sarebbe stato possibile senza questa gigantesca riconversione dello spazio urbano, senza uno zoning capace di garantire una distribuzione delle quote di popolazione (dirigenti, professionals, migranti, nuove e vecchie marginalità) adeguata alle nuove funzioni produttive e allo sviluppo ipertrofico del terziario.
Le grandi operazioni di restyling urbano di questi anni, con la privatizzazione di fatto di vaste aree, lo smantellamento delle reti di welfare locale, la gestione securitaria progressiva dello spazio urbano, non sono che il reverse di una medaglia discorsiva che ha posto al centro questioni come il «decoro», la «vivibilità» e nientemeno che una «nuova cittadinanza». Decostruendo le peculiarità essenzializzate del «caso napoletano», Tuff City apre uno spazio di riflessione che trascende ampiamente i luoghi fisici osservati per interrogarsi sulle trasformazioni che - nella stagione del municipalismo e «dei sindaci» - hanno profondamente mutato il Dna della sinistra storica, la sua visione del mondo e dei rapporti di forza, la sua base di riferimento elettorale.
Competizione planetaria
A Napoli, «sottoproletariato» e «classi popolari» della tradizione sono definitivamente scomparsi dal lessico della dirigenza post-comunista, ma si tratta, in fondo, di un fenomeno ampiamente globale. Certo, la variante specifica della vicenda urbana napoletana (la riscrittura dell'ipermoderno conflitto tra buoni e cattivi cittadini nei termini antichi e sostanzialmente «orientalisti» della vulgata locale, una borghesia illuminata di stampo europeo contro una plebe arcaica e indecorosa) si è rivelata presto insufficiente ad attrarre capitali significativi nella competizione serrata fra città scatenata tra la fine del vecchio e l'inizio del nuovo Millennio (con conseguente collocazione di Napoli fra le metropoli/sweatshop del «terzo mondo» piuttosto che nei ranghi delle capitali del know-how). Tuttavia, appartiene a una famiglia di discorsi ben più ampia e meritevole di attenzione critica anche in futuro: le voci inedite raccolte da Dines nella resistenza dei vecchi e nuovi antichi city-users alle trasformazioni di Piazza Plebiscito, nella lotta per la sopravvivenza dei migranti di Piazza Garibaldi o nel tentativo di ricostruzione dal basso del legame sociale operato dal Centro sociale Damm di Montesanto, costituiscono perciò una testimonianza preziosa sulla natura conflittuale di concetti così unanimemente assunti nel lessico della sinistra contemporanea. C'è davvero un unico modo di intendere la dimensione «pubblica» di una città? Chi è che stabilisce quali siano le pratiche e gli usi urbani auspicabili e «civili»? In definitiva, chi sono i «cittadini» cui ci si riferisce?

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