domenica 21 ottobre 2012

Conca d'oro


Pubblichiamo due articoli apparsi su La Repubblica del 22 ottobre dedicati al libro scritto dall’agronomo palermitano Giuseppe Barbera Conca d’oro edito da Sellerio. Il primo è di Francesco Erbani, il secondo di Adriano Sofri.
Il libro è la storia della nascita, della vita e della morte di un paesaggio, la Conca d'oro di Palermo, protagonista assoluto della storia mediterranea, nel bene e poi nel male.
 Un paesaggio nato in un mare al centro della storia, dove si incontrano le nature di tre continenti e le più importanti civiltà umane, in una piccola pianura, chiusa dai monti e solcata dalle acque, di straordinaria bellezza e fertilità.


Quel sacco di Palermo che ha cancellato il mito della Conca d’oro
di Francesco Erbani
Come è potuto accadere? Come è potuto accadere che la Conca d’oro in cui è adagiata Palermo, la conchiglia «più bella di quella nella quale Venere fu portata attraverso il placido mare » (così cantava un poeta nel Quattrocento), il paesaggio di giardini e di frutteti, di fatiche umane e di strabilianti innovazioni tecniche, di biodiversità e di dolcissimi mandarini, il luogo che fece dire a Goethe che «chi ha visto tutto questo non lo dimentica più», com’è potuto accadere che la Conca d’oro, fitta d’alberi già nel V secolo avanti Cristo (racconta Diodoro Siculo), fra il 1955 e il 1975 sia stata sepolta da trecento milioni di metri cubi? Come è potuto accadere, se lo domanda Giuseppe Barbera, agronomo palermitano, professore di Colture arboree, e il suo angoscioso quesito rimbalza in ognuna delle centoquaranta pagine di Conca d’oro, un libro scritto per Sellerio che non è solo la storia di un luogo. È anche una storia letteraria, una mitografia, un repertorio fra quelli che meglio documentano quanto la natura correttamente manipolata dall’uomo possa dare materiali alla facoltà dell’immaginazione. Ed è la storia di un simbolo mediterraneo, di una comunità vegetale la cui unità è fornita dal rapporto di diverse colture, perché solo la diversità, la complessità del disegno e delle produzioni assicurano benessere, prosperità, bellezza e armonia.
E sono esattamente queste le qualità che il sacco di Palermo, un misto di mafia, affari, politica e pessima amministrazione, cancella nel volgere di pochi anni con crudeltà sistematica, nel silenzio della cultura accademica e delle professioni rotto soltanto dalle denunce del giornale L’Ora.
Al Piano regolatore è sostituito un più efficace Piano di ricostruzione. Si sfrutta l’emergenza abitativa (120 mila vani distrutti dalle bombe) per dislocare quartieri inospitali sulle aree a maggiore seduzione speculativa. Nobili e grandi borghesi lottizzano ville e giardini e le disseminano di fungaie in cemento. Scaltri proprietari regalano al Comune piccole porzioni che, opportunamente solcate da strade, illuminazione e fogne, valorizzano il resto del possedimento. Le ville liberty di Ernesto Basile vengono demolite in una notte, l’ultima prima che si possano applicare leggi di salvaguardia. Sono gli anni di Salvo Lima e Vito Ciancimino. E in cui architetti laureati sostengono che la monotonia del verde vada vivificata dagli edifici. Il paradiso della Conca d’oro diventa un inferno. Bestioni di cemento travolgono un paesaggio raccontato nei secoli con dispendio di aggettivi, un paesaggio, ha scritto Rosario Assunto, studioso di estetica, «del quale nessuno che lo abbia conosciuto può non sentirne il rimpianto, come di una luce che si sia spenta sul mondo».
La qualità della Conca d’oro sta nell’incrocio di produttività e di bellezza. Trecento generazioni di agricoltori, racconta Barbera, hanno adattato i frutteti a giardini, grandi frutteti e grandi giardini protetti da una barriera di montagne che preservano il clima e che inducono Fernand Braudel a usare l’aggettivo “paradisiaco”. Il paesaggio palermitano è un paesaggio culturale, un sistema equilibrato che modula le risorse disponibili dando alla natura una forma, una «porzione del mondo visibile incorniciata entro limiti che ben distinguono la pianura costiera, che sarà prevalentemente terra di frutteti, orti e giardini, dalle regioni collinari della Sicilia terre di pascoli e di cereali ». L’ulivo cresce in mezzo ai pascoli, la vite splende nei frutteti promiscui. Da terre straniere arrivano le palme nane, i datteri, i melograni e chi c’è già accoglie i nuovi venuti, realizzando una civica fatta di alberi e piantagioni. La complessità dell’ordito assicura «stabilità contro le malattie e i disastri climatici, sicurezza ambientale ». I romani, poi i bizantini, quindi i musulmani e poi i normanni trovano un paesaggio che assimila diverse tradizioni e lo arricchiscono con innesti colturali. Il punto d’equilibrio cambia costantemente, gli aggiornamenti sono continui, ma chiunque innovi rispetta lo statuto dei luoghi. Anche quando alle coltivazioni si accompagnano le lavorazioni artigianali e industriali. La Conca d’oro, scrive Barbera, conferma un fondamentale “dogma ecologico e culturale”: solo il confronto fra diversi, uno scambio che avviene «attraverso margini permeabili e non barriere insormontabili (muri, fili spinati, recinti e respingimenti), genera nuova vita, saperi e paesaggi che rispondano ai bisogni, sempre in evoluzione, del mondo».
L’equilibrio della Conca d’oro attraversa i secoli. Sorgono le ville, che danno un’altra sistemazione al paesaggio, proponendo una specie di modulo urbanistico attraverso il quale anche la città sarebbe dovuta crescere. Arrivano gli agrumi, che segneranno una evoluzione produttiva, alimentando il mito di una terra dall’eterna primavera. In quest’armonia secolare, che non possiede nulla di immobile, anzi contiene le regole per rinnovarsi, regole che basta solo saper leggere, interpretare e applicare, irrompe la potenza distruttrice della rendita fondiaria, quella per cui un terreno agricolo vale molto, ma molto di più vale un terreno edificabile. Palermo diventa esemplare nella letteratura sulla speculazione. L’amministrazione pubblica, la mafia, gli stessi proprietari di quei magnifici giardini consolidano alleanze. La città avanza senza trascinare alcuna qualità urbana e tutto distrugge.
Anche Barbera assiste – lo racconta nelle prime pagine – alla distruzione del giardino di famiglia, a Resuttana. Il padre, un imprenditore di successo, non è costretto a vendere, ma si trova impigliato in un meccanismo affaristico i cui effetti per lui sarebbero stati poi scarsissimi. Un altro ricordo condisce la sua narrazione. I primi studi sui mandarini tardivi di Ciaculli, giovane ricercatore, li compie in una grande tenuta. Quella tenuta appartiene a un insospettabile Michele Greco, quello che le indagini e le condanne definiranno il “papa” della mafia. «Terribile criminale, autore di stragi efferate, amava il suo giardino di agrumi di un amore profondo».



Occuparsi del paradiso ecco il vero castigo
di Adriano Sofri
Non avevo mai pensato che la storia della Cacciata dal paradiso si potesse riscrivere alla rovescia, senza cacciata: per castigare davvero le sue creature, il Signore le condannò a restare, e a occuparsi del paradiso, loro e i loro discendenti, fino a trasformarlo in un inferno. L’ho immaginato leggendo il racconto che Giuseppe Barbera fa della Conca d’oro. Il castigo di Dio è delegato alle creature, Dio si limita a renderle responsabili. Ricevuto un paradiso in appalto, gli esseri umani – i più vari, dalle più varie provenienze – se ne fanno orgogliosamente custodi e curatori, secondo un ideale di utilità e di bellezza, l’una impensabile senza l’altra. Frutti e fiori, l’utile e il dilettevole –“il sollazzevole”, come preferiscono dire i testi che via via cantano quel giardino terrestre. È la variante siciliana della tesi (dubbia) sui vizi privati e le pubbliche virtù: trarre e proprio delicio publica utilitas, dal piacere proprio il vantaggio di tutti.
Che il serpente scelga l’albero per appostarsi e insidiare è un gran dolore per Barbera, uomo di alberi oltre che di capperi e fichidindia e altre meraviglie. Tanto lenta e metodica è la trasmissione fra le trecento generazioni che fanno ricca e bella una terra favorita dalla creazione, quanto catastrofico è il gesto che in una generazione o due ne fa una terra desolata e offesa, nella quale d’ora in poi vivere è una condanna, un esilio capovolto. Questa mia trascrizione mitologica della storia della Conca d’oro non è così fantastica, se si pensa alla premessa in cui Barbera si racconta ignaro studente a studiare l’irrigazione dei mandarini nel giardino di un papa di Cosa Nostra. I mafiosi infatti possono amare i giardini, benché solo i loro, e sognare il Paradiso, benché solo per sé. Il visitatore vede gli scempi, ma anche le meraviglie, l’orto botanico, i carrubi, le ferule lungo le strade – nel cui cavo Prometeo portò la scintilla agli umani, ma in Grecia sono molto più rare – ma non sa abbastanza da fare confronti. È come un palermitano di vent’anni, cui deve sembrare che le cose non possano essere che così, con gli scheletri di cemento seminati su un monte come un presepio di rovine. Si ascoltano racconti e si imparano parole, come di quell’abitante di Salemi, appena all’interno, che arrivato sopra Palermo per la prima volta in vista del mare esclamò: «Potenza della gebbia grande!» Anche «agli invasori musulmani, che vi giungono nell’830, la Conca d’oro appare come il paradiso promesso dove, come recita una Sura del Corano, “corrono ruscelli, perennemente vi sono frutti e ombra”». E paradiso terrestre lo chiamano al loro arrivo i normanni. E così a ogni nuovo “invasore”.
La voracità da convalescenza di una generazione uscita dalla guerra e un regime criminale hanno devastato la terra come nemmeno avrebbe potuto una legione di cavallette. Ma già Franchetti e Sonnino avevano avvertito come nel regno della Mafia «quel profumo di fiori d’arancio e di limone principia a sapere di cadaveri». Tra il 1955 e il 1975 ogni anno centinaia di milioni di metri cubi di cemento e centinaia di chilometri di asfalto «hanno soffocato un milione di metri quadrati di suolo e preso il posto di oltre un milione di alberi».
E ora? Si è tentati di dire che la Conca d’oro – non solo lei – è stata rottamata, e ora si tratta di riparare, per quanto è possibile. Il libro di Barbera esce alla vigilia di una ennesima elezione siciliana: in genere le elezioni siciliane sono, per così dire, specialmente deludenti, al di là del loro risultato. Questa volta non fa eccezione. Grillo solletica il pubblico proclamando che «la Sicilia non ha bisogno dell’Italia». Ma la Sicilia e l’Italia non si fanno più reciprocamente eccezione. La palma è salita al nord, e si è portata dietro il suo punteruolo. Nei giorni scorsi abbiamo letto qui gli articoli di Francesco Merlo –“Togliamo alla Sicilia lo Statuto speciale”– e di Salvatore Settis –“In Sicilia anche l’arte è a Statuto speciale” –. Come sarebbe bella una campagna elettorale democratica e federalista che rivendicasse apertamente la soppressione delle regioni a statuto speciale, tutte, anche quelle che all’altro capo dell’Italia hanno fatto fruttare i propri privilegi, e difendesse quelle ordinarie, che oggi pericolano al punto che si vorrebbe buttarle via con la loro acqua sporchissima.

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