foto da S/connessioni precarie
La compattezza apparentemente senza faglie del capitalismo e, nel nostro caso, dell’affaire Ilva è ormai solo una vecchia novella. Hanno provato a giustapporre padron Riva, città, sindacati e governo. Un’alchimia particolare avrebbe salvato capre e cavoli, il lavoro e il territorio: riaprire la fabbrica, riqualificare l’ambiente e salvare il lavoro. Dopotutto l’oggetto alchemico è stato partorito: mantenere attiva la produzione in una fabbrica sotto sequestro. Stranezze della governance neoliberale al tempo della crisi. Niente di più stravagante.
Eppure il 2 agosto qualche granello nell’ingranaggio ha
fatto saltare lo spettacolo inscenato in poche ore. Amorevoli intenti avevano
portato su un palco padrone, padroncini, sindacalisti e politicanti. Un
quadretto di famiglia che attendeva un flash e l’incoronazione di prodotto
tipico italiano.
Nel bel mezzo è comparso un treruote! Alle sue spalle, i
media mainstream hanno visto la solita masnada di sindacalisti eretici,
centro-socialisti, professionisti in jacquerie e riot. Una miscela di incubi
che, alla bisogna, vengono ripescati dall’armadio degli orrori e sbattuti in
prima pagina. Questa volta, però, proprio un video sul sito di Repubblica ha
sbugiardato quei media. Che autogol! Visibilmente, quelle tre ruote venivano
sospinte da un centinaio di uomini e donne. Non importa quanti. Era un corpo
unico di lavoratori, di disoccupati, di precari, di studenti. Un corpo composto
di una pluralità che, persistendo positivamente, è andato coalizzandosi in un
comitato segnato dalla ricerca di dignità e di verità, nonché eretico alle
lusinghe delle rappresentanze politiche e sindacali.
In quella giornata, abbiamo visto all’opera il desiderio
dell’autonomia, una pulsione composta di tutta una serie di azioni e affetti
senza ridursi mai a un uno, all’unità fittizia quanto ipocrita dei sindacati e
delle organizzazioni politiche, alle cui sirene hanno dato credito negli anni
scorsi anche alcune aree di movimento, ventilando fittizie quanto tattiche
unità o assembramenti contro la crisi e per l’alternativa. Il treruote avanzava,
mentre la piazza gremita si apriva dinanzi a gendarmi incapaci ad arrestare
l’imprevedibile evento. Nell’avanzare, dal treruote veniva pronunciata la
verità al potere. In quella giornata agostana il re è stato denudato.
Ora, che fare?
Nell’immediato: inventare nuove istituzioni costituenti del
comune in rivolta, immaginando l’a-venire. E’ una ghiotta opportunità per i
movimenti non solo locali ma anche nazionali, cavalcare la divisione dell’uno,
dell’unità fittizia tanto del capitale quanto della sua governance.
L’opportunità è quella di riprende, oltre alla parola, la vita activa, la gestione delle scelte politiche, l’azione nei
quartieri intossicati di inquinamento e di lavoro, alla ricerca di vie di fuga
dall’ossimoro dei beni comuni gestiti dal pubblico, laddove il pubblico agisce
secondo paradigmi imprenditoriali, schierandosi addirittura in difesa
dell’azienda di cui, come per il segreto di pulcinella, tutti sapevano quello
che faceva e non faceva per la salvaguardia dell’ambiente, della salute e del
lavoro dei tarantini. E’ una storia italiana, quella della borghesia
imprenditoriale e parassitaria. Per dirla con Girolamo De Michele: “Non si
tratta forse di pensare in altro modo anche i beni comuni, come “beni del
comune”, come produzione sociale (e non come reintroduzione surrettizia di una
qualche “naturalità”) a partire dalla questione della gestione comune dei beni
– ripensare i beni non come enti fenomenici distinti l’uno dall’altro, ma come
modalità e attribuzioni de comune? Non si tratta di fare – anche a Taranto –
del reddito di cittadinanza contro il lavoro salariato, dell’intransigenza
sulla dignità della vita contro ogni tentazione compromissoria (magari
improntata, con evocativi richiami ignari al patrimonio di saggezza della
cultura popolare, alla “speranza”, che è pur sempre una passione triste) la
base del proprio agire all’interno dei movimenti, dei conflitti, della crisi
globale che colpisce con violenza ancora maggiore la nuda vita?”
Last but not least:
è il caso di mandare come un jingle la storia dell’Ilva di Bagnoli-Napoli,
chiusa nel ’92 e seguita da una valanga di parole, promesse e bugie. Bonifica,
migliaia di posti di lavoro, risanamento dell’area urbana, collocazione sociale
e culturale dell’insediamento dismesso. Macché. All’oggi, niente di tutto ciò.
In compenso, Bagnoli è divenuta rendita elettorale di qualsiasi coalizioni
politica: ognuno dice la sua su quegli ettari ed ettari contaminati. E, in
effetti, è una risorsa. Dopotutto, la Città della Scienza, sorta in una
porzione di quell’area, è un esempio della politica post-moderna, il tempo
degli interessi e delle clientele della prima repubblica va ritmandosi sia da
modi nuovi sia da un senso eticamente compatibile con il territorio, mentre la
storia pare essersi fermata con Bassolino e i suoi luogotenenti alla stagione
delle clientele del “glorioso” PCI. I movimenti invece non sono riusciti ad
affermarsi come soggetto critico, forzando le maglie della governance verso la gestione comune di quel territorio. Quale
insegnamento? Che le istituzioni del comune sono un terreno di lotta. Soltanto
dalla rinegoziazione conflittuale, a partire dalla presa di parola, si può
praticare l’esodo oltre il pubblico e il privato, oltre i sindacati, i partiti
e il padron Riva.
Qualcosa di nuovo, forse, va sorgendo sull’insediamento ex
operaio. Nell’ex banca della fabbrica è nata Bancarotta, uno spazio occupato
destinato alla ricerca di pratiche costituenti del fare comune, oltre la Città
della Scienza e oltre il Comune.
In fondo, quando l’uno si frantuma non è detto che si
riparta in due. Piuttosto l’occasione è che provochi una moltitudine. Quando
accade, non c’è modo di riunificarlo. Il capitale definitivamente schizofrenico
offre occasioni, la politica dei movimenti non può che situarsi immediatamente
dentro queste faglie.
Francesco Festa
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