sabato 11 agosto 2012

La schizofrenia dell’affaire Ilva e la verità del bene comune di F. Festa

foto da S/connessioni precarie


La compattezza apparentemente senza faglie del capitalismo e, nel nostro caso, dell’affaire Ilva è ormai solo una vecchia novella. Hanno provato a giustapporre padron Riva, città, sindacati e governo. Un’alchimia particolare avrebbe salvato capre e cavoli, il lavoro e il territorio: riaprire la fabbrica, riqualificare l’ambiente e salvare il lavoro. Dopotutto l’oggetto alchemico è stato partorito: mantenere attiva la produzione in una fabbrica sotto sequestro. Stranezze della governance neoliberale al tempo della crisi. Niente di più stravagante.
Eppure il 2 agosto qualche granello nell’ingranaggio ha fatto saltare lo spettacolo inscenato in poche ore. Amorevoli intenti avevano portato su un palco padrone, padroncini, sindacalisti e politicanti. Un quadretto di famiglia che attendeva un flash e l’incoronazione di prodotto tipico italiano.

Nel bel mezzo è comparso un treruote! Alle sue spalle, i media mainstream hanno visto la solita masnada di sindacalisti eretici, centro-socialisti, professionisti in jacquerie e riot. Una miscela di incubi che, alla bisogna, vengono ripescati dall’armadio degli orrori e sbattuti in prima pagina. Questa volta, però, proprio un video sul sito di Repubblica ha sbugiardato quei media. Che autogol! Visibilmente, quelle tre ruote venivano sospinte da un centinaio di uomini e donne. Non importa quanti. Era un corpo unico di lavoratori, di disoccupati, di precari, di studenti. Un corpo composto di una pluralità che, persistendo positivamente, è andato coalizzandosi in un comitato segnato dalla ricerca di dignità e di verità, nonché eretico alle lusinghe delle rappresentanze politiche e sindacali.
In quella giornata, abbiamo visto all’opera il desiderio dell’autonomia, una pulsione composta di tutta una serie di azioni e affetti senza ridursi mai a un uno, all’unità fittizia quanto ipocrita dei sindacati e delle organizzazioni politiche, alle cui sirene hanno dato credito negli anni scorsi anche alcune aree di movimento, ventilando fittizie quanto tattiche unità o assembramenti contro la crisi e per l’alternativa. Il treruote avanzava, mentre la piazza gremita si apriva dinanzi a gendarmi incapaci ad arrestare l’imprevedibile evento. Nell’avanzare, dal treruote veniva pronunciata la verità al potere. In quella giornata agostana il re è stato denudato.
Ora, che fare?
Nell’immediato: inventare nuove istituzioni costituenti del comune in rivolta, immaginando l’a-venire. E’ una ghiotta opportunità per i movimenti non solo locali ma anche nazionali, cavalcare la divisione dell’uno, dell’unità fittizia tanto del capitale quanto della sua governance. L’opportunità è quella di riprende, oltre alla parola, la vita activa, la gestione delle scelte politiche, l’azione nei quartieri intossicati di inquinamento e di lavoro, alla ricerca di vie di fuga dall’ossimoro dei beni comuni gestiti dal pubblico, laddove il pubblico agisce secondo paradigmi imprenditoriali, schierandosi addirittura in difesa dell’azienda di cui, come per il segreto di pulcinella, tutti sapevano quello che faceva e non faceva per la salvaguardia dell’ambiente, della salute e del lavoro dei tarantini. E’ una storia italiana, quella della borghesia imprenditoriale e parassitaria. Per dirla con Girolamo De Michele: “Non si tratta forse di pensare in altro modo anche i beni comuni, come “beni del comune”, come produzione sociale (e non come reintroduzione surrettizia di una qualche “naturalità”) a partire dalla questione della gestione comune dei beni – ripensare i beni non come enti fenomenici distinti l’uno dall’altro, ma come modalità e attribuzioni de comune? Non si tratta di fare – anche a Taranto – del reddito di cittadinanza contro il lavoro salariato, dell’intransigenza sulla dignità della vita contro ogni tentazione compromissoria (magari improntata, con evocativi richiami ignari al patrimonio di saggezza della cultura popolare, alla “speranza”, che è pur sempre una passione triste) la base del proprio agire all’interno dei movimenti, dei conflitti, della crisi globale che colpisce con violenza ancora maggiore la nuda vita?”
Last but not least: è il caso di mandare come un jingle la storia dell’Ilva di Bagnoli-Napoli, chiusa nel ’92 e seguita da una valanga di parole, promesse e bugie. Bonifica, migliaia di posti di lavoro, risanamento dell’area urbana, collocazione sociale e culturale dell’insediamento dismesso. Macché. All’oggi, niente di tutto ciò. In compenso, Bagnoli è divenuta rendita elettorale di qualsiasi coalizioni politica: ognuno dice la sua su quegli ettari ed ettari contaminati. E, in effetti, è una risorsa. Dopotutto, la Città della Scienza, sorta in una porzione di quell’area, è un esempio della politica post-moderna, il tempo degli interessi e delle clientele della prima repubblica va ritmandosi sia da modi nuovi sia da un senso eticamente compatibile con il territorio, mentre la storia pare essersi fermata con Bassolino e i suoi luogotenenti alla stagione delle clientele del “glorioso” PCI. I movimenti invece non sono riusciti ad affermarsi come soggetto critico, forzando le maglie della governance verso la gestione comune di quel territorio. Quale insegnamento? Che le istituzioni del comune sono un terreno di lotta. Soltanto dalla rinegoziazione conflittuale, a partire dalla presa di parola, si può praticare l’esodo oltre il pubblico e il privato, oltre i sindacati, i partiti e il padron Riva.
Qualcosa di nuovo, forse, va sorgendo sull’insediamento ex operaio. Nell’ex banca della fabbrica è nata Bancarotta, uno spazio occupato destinato alla ricerca di pratiche costituenti del fare comune, oltre la Città della Scienza e oltre il Comune.
In fondo, quando l’uno si frantuma non è detto che si riparta in due. Piuttosto l’occasione è che provochi una moltitudine. Quando accade, non c’è modo di riunificarlo. Il capitale definitivamente schizofrenico offre occasioni, la politica dei movimenti non può che situarsi immediatamente dentro queste faglie.
Francesco Festa

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