mercoledì 1 agosto 2012

Così rinasce la Calabria terra di Equo sud



INTERVISTA - SILVIO MESSINETTI 
REGGIO CALABRIA
 
A due anni e mezzo dalla rivolta di Rosarno tutto è cambiato, in peggio. Ma nella terra della 'ndrangheta e della sinistra politica scomparsa c'è chi l'antirazzismo lo mette in pratica
Nella punta dello Stivale la sinistra politica (Sel, Prc) è di fatto scomparsa. Nessun consigliere regionale, rari quelli provinciali e comunali, poca incisività. In Calabria, nell'ultima roccaforte della destra, nel regno dello "scopellitismo", resistono nel sociale solo sparute realtà. Tra queste spicca Equo Sud, associazione di produttori di Villa San Giuseppe, quartiere alla periferia nord di Reggio, alla foce del torrente Gallico, riconosciuto come «La Conca d' Oro» per le produzioni agricole pregiate, tra cui l'arancia "belladonna", arancia tardiva che matura nel mese di marzo ma che dura fino a inizio estate, particolare per la sua buccia fine e dal sapore inconfondibile. Produttori autonomi, piccoli, che liberamente si tengono fuori dalla vischiosa rete della grande distribuzione. Una necessità, ma anche una scelta. Evitare le maglie della Grande Distribuzione Organizzata significa sottrarsi al taglieggiamento sistematico che nutre i profitti delle multinazionali, colpendo i consumatori, strozzando i produttori. Arturo Lavorato lavora ad Equo Sud. È lui che ci illustra questa straordinaria esperienza di economia sociale e solidale.

Quando nasce EquoSud?
Equosud nasce circa dieci anni fa. Nella zona di Gallico, territorio rurale a nord di Reggio, dalla difesa della vallata del fiume Gallico, contro un progetto di megadiscarica. Un'esperienza di lotta che coinvolse anche l'allora giovanissimo centro sociale Cartella (nella cui ricostruzione dopo l'attentato incendiario siamo in questi mesi impegnati). Un autentico movimento popolare di difesa del territorio, una battaglia vittoriosa che ha seminato il progetto di EquoSud. Alcuni si son detti: non basta difendere, bisogna riappropriarsi, non vogliamo le discariche? Torniamo a coltivare gli agrumi belladonna! Fabbrichiamo insieme le fondamenta di un futuro diverso in questa terra. Così nasce il gruppo originario, animato soprattutto da Mimmo Tramontana, che tornato dopo anni di emigrazione operaia portava già avanti una cooperativa tessile, oggi un esempio di come si possa anche qui creare lavoro senza rassegnarsi allo sfruttamento. Tante identità e tante culture si incontrano in questo percorso. Anche dal punto di vista politico. Ci sono antagonisti e riformisti, anarchici e comunisti, realisti magici e mistici ecumenici, sincretici, apocalittici, primitivisti, membri di partito e militanti antipartito, non-violenti e autonomi col sampietrino in mano: ognuno porta la sua verità, la sua visione e l'orizzonte di ognuno contribuisce a fare più ampio l'orizzonte di tutti. 

Da anni denunciate le violazioni dei diritti dei lavoratori dell'intera filiera commerciale che dalle campagne con la produzione e la raccolta attraversa l'intero Paese, a bordo di camion e treni, e termina sugli scaffali dei grandi centri commerciali, con il lavoro di facchini e magazzinieri, stritolati negli ingranaggi di quella macchina di sfruttamento denominata Grande Distribuzione Organizzata. Avete ultimamente espresso solidarietà agli immigrati di Basiano vessati dai padroni e repressi dallo Stato. Perché?
La solidarietà con i lavoratori di Basiano è maturata nell'ambito di una rete che portiamo avanti con varie realtà rurali a partire da quanto costruito a Roma con l'Assemblea dei lavoratori africani di Rosarno nel 2010, subito dopo la rivolta. Una rete che vede coinvolte diverse realtà nella penisola, da Rosarno fino a Saluzzo, in un percorso di confronto, scambio e mutuo appoggio in riferimento ai diversi interventi che ognuna realizza sulla questione dello sfruttamento del lavoro migrante. È in questo contesto che nasce «Sos Rosarno», dall'impegno congiunto di EquoSud e Africalabria, con un percorso interetnico di partecipazione diretta, per un'alleanza di classe che veda uniti sul medesimo fronte di lotta piccoli contadini e braccianti. Va da sé che questo fronte è lungo quanto tutta la filiera dell'agroalimentare e si disloca in tutti i territori e i settori in questa coinvolti, appunto come dici tu dai campi ai banchi dei supermercati, passando per le industrie di trasformazione, quindi anche per la logistica delle grandi catene in cui si realizzano forme di segregazione e supersfruttamento della manodopera organizzata su base etnica. 

Sono trascorsi 30 mesi da Rosarno. C'è stata la campagna di solidarietà "Sos Rosarno" con le arance etiche dalla piana di Gioia Tauro e l'olio solidale. E oggi, a 2 anni e mezzo dalla rivolta, cosa è cambiato?
È cambiato in termini quantitativi. Gli africani erano molti meno il primo anno dopo la rivolta. Erano di nuovo molti di più la scorsa stagione. È cambiato perché è peggiorato il rapporto tra domanda e offerta di lavoro, perché la domanda decresce a causa della crisi, gli agrumi restano sugli alberi, non conviene raccogliere, a tutto vantaggio dei commercianti che rastrellano a bassissimo costo intermediando soprattutto con le industrie di trasformazione (la stragrande maggioranza della produzione nella piana ha questa destinazione,quella che finisce nella Fanta, ad esempio). Ma questo non vuol dire che la transumanza si fermi: l'emorragia occupazionale dei distretti come quelli lombardi ad altissimo tasso di manodopera immigrata incrementa i volumi degli stagionali. È cambiato per il fatto che non esistono più i grandi agglomerati nelle fabbriche abbandonate. Perché bisogna salvare le apparenze, meglio dispersi nelle campagne. È cambiato per il fatto che ci sono strutture d'accoglienza, due campi, ma realizzate secondo criteri di segregazione e concentrazione, lontano dai centri abitati. E poi c'è il razzismo, quale effetto delle circostanze. La rivolta ha lasciato una ferita aperta:il clamore mediatico ha inibito una lucida elaborazione del trauma. Anzi, ha creato un fossato di pregiudizio tra buona parte della popolazione locale e gli africani, un rimpallo nella lettura moralistica di quanto avvenuto che occulta le cause strutturali. Lo stigma di città razzista riconduce quanto avvenuto a una categoria morale, quindi induce meccanismi di autodifesa e chiusura nella popolazione locale, che si difende dall'accusa con un discorso autoassolutorio e colpevolizza gli africani per una rivolta che viene considerata gratuita manifestazione d'inciviltà.

Parlate spesso della necessità di un'alleanza tra piccoli contadini e braccianti contro le multinazionali e giudicate nociva la contrapposizione tra braccianti e piccoli contadini, autoctoni e immigrati. Perché?
L'alleanza tra contadini, piccoli, e immigrati è importante come primo momento di una più generale ricomposizione di classe. Nello specifico, la piana di Gioia Tauro è un territorio a tradizionale vocazione agricola. In una regione dove il tasso di famiglie che traggono reddito dall'agricoltura è doppio rispetto alla media nazionale, la piana è, insieme a quella di Sibari e quella di Lamezia, un territorio il cui regime intensivo delle colture è risalente. I paesi della piana nel dopoguerra erano abitati da masse di braccianti e raccoglitrici d'olive che attraverso lotte sociali imponenti hanno realizzato un processo d'emancipazione sociale di cui oggi non si ha più memoria. Erano paesi rossi. Rosarno era tra le principali centrali bracciantili e soprattutto una delle basi di un Pci locale molto forte. 
EquoSud, e quindi anche «Sos Rosarno» che ne fa parte, non è dunque un'associazione di produttori agricoli tout court. È un movimento di cittadini che in un dato territorio si riuniscono per costruire insieme le condizioni, economiche, sociali, politiche, umane, di un futuro diverso improntato alla convivialità ed alla sostenibilità, per il recupero della memoria. Una "nuova civiltà contadina" orientata al rispetto della terra e all'armoniosa convivenza di coloro che la abitano. Salvare l'agricoltura del nostro territorio e cambiarla per renderla sempre più simbiotica e meno violenta verso l'ecosistema è principio di base del nostro progetto. La sovranità alimentare come chiave di pianificazione alternativa del territorio agricolo nel quadro di un processo sociale inclusivo e interetnico. È questo a cui lavoriamo.
 

Dopo gli arresti degli attivisti del movimento No Tav avete inviato 2 tonnellate di arance in Valsusa, per una distribuzione solidale i cui proventi sono andati al supporto legale. Cosa lega voi, uomini e donne del Sud di mare e di pianura, ai montanari piemontesi?
Il mutualismo tra subalterni in lotta, in cui crediamo, non ha confini. Le comunità comunicano e solidarizzano, è quello delle arance è solo un esempio. Di base crediamo nella solidarietà fattiva e non in quella verbosa.

In Italia i migranti sono stati protagonisti di rivolte per conquistare i propri diritti di persone e di lavoratori. In particolar modo nel Mezzogiorno: da Castel Volturno alla Piana del Sele, da Rosarno allo straordinario sciopero autorganizzato di Nardò. Tuttavia tali lotte non riescono a raccordarsi e il movimento antirazzista è in crisi. Nemmeno l'istituzione del ministero dell'Immigrazione, guidato da Andrea Riccardi, è riuscito a smuoverlo. Come leggete questa fase?
Noi crediamo nelle pratiche e non nei discorsi. Il razzismo è un discorso, ma la sua origine sociale si determina in base ai rapporti sociali di dominio alla cui riproduzione è funzionale questo discorso ideologico. Quindi non ha senso combatterlo sul piano del discorso. Diventa un rituale gioco delle parti che poco produce oltre le rispettive identità, che in questo rito si confermano e rappresentano. Bisogna attaccare le strutture sociali che stanno alla base. Gli immigrati sono lavoratori e nella lotta sui posti di lavoro sta il potere contrattuale che possono conquistarsi. È su questo piano che si deve attivare il collegamento e l'articolazione delle lotte. Mi domando come mai ci siano state migliaia di persone, negli anni, in piazza per contrapporre un discorso antirazzista al discorso razzista articolato in legge nella Bossi-Fini e invece non si riesca a strutturare una rete nazionale di supporto alle lotte come quella di Basiano e Pioltello, piuttosto che di Nardò o Rosarno. 

La Calabria è una terra povera. Voi dite invece che è ancora una terra ricca di cervelli e operosità inespresse, soffocate da un'emigrazione storicamente assecondata dalle politiche nazionali. Perché?
Perché è così. Perché la crisi non è solo distruttiva, la crisi è anche trasformazione, quindi una grande occasione. Noi viviamo un'infelicità generalizzata, in Calabria, con la gente che si chiude in casa mentre fuori nello spazio comune tutto degrada. Sempre più chiusi, sempre più infelici, sempre più deboli e isolati. Noi promuoviamo tanti obiettivi nelle lotte in cui siamo coinvolti, ma la verità è che la gente s'incontra cercando una cosa (la difesa del territorio, del posto di lavoro, dei diritti...) ma poi, che l'ottenga o meno, la cosa principale che trova sono gli altri che ha incontrato e con cui s'è messa insieme. Ibrahim, un bracciante-poeta della Costa d'Avorio, c'ha insegnato un detto: «Un ricco solo in mezzo ai poveri è povero. Un povero insieme ad altri poveri è ricco». È questo l'esempio fondamentale della Valsusa.. Noi perseguiamo la biopolitica dello scialarsi. Perché nella convivialità c'è la liberazione dai circuiti mercificati e dai bisogni indotti per riscoprire i bisogni autentici e soddisfarli meglio in un dimensione collettiva. Il mutualismo è un metodo, ma la sua pratica costituisce immediatamente un capitale inesauribile 

In Calabria la disoccupazione non è solo un dramma sociale strutturale ma anche strumento di sottomissione, contesto di riproduzione di un sistema di potere clientelare dove la 'ndrangheta razzola a piacimento. Come combatterla?
L'unico modo per essere davvero antimafia, oggi, in Calabria, è l'anticapitalismo. Combattere la 'ndrangheta sul suo stesso terreno, a casa sua, offrendo un'alternativa alle stesse persone che ora sono irretite nei circuiti vischiosi e molteplici della subalternità al potere mafioso. Che è politico ed economico, sociale prima che militare. Significa prima di tutto rompere attraverso l'intervento sociale il circuito delle aspettative indotte, la necessità dei guadagni, trovare forme di cooperazione sociale e mutualismo che attenuino la dipendenza.

In Calabria la sinistra politica è di fatto scomparsa. Resistono nel sociale realtà come la vostra, qualche centro sociale e movimenti ambientalisti sebbene indeboliti. Per converso la Calabria è l'ultimo feudo della destra berlusconiana. Perché?
Il berlusconismo è morto. Comunque in Calabria non esiste la democrazia, nemmeno quella rappresentativo-borghese, le categorie di destra e di sinistra sono relative, come dimostra il trasformismo imperante. In questo circo non c'è speranza di soluzione. Qui c'è il sottosviluppo: se il rapporto di lavoro è mediato da un rapporto clientelare,il rapporto sociale economico è mediato da questa dimensione politica. E questa è l'unica politica reale che c'è in Calabria. E riguarda tutti i partiti. 

Vi definite una realtà anticapitalista, perché dite di non mirare all'accumulazione di profitti ma di idee, energie, esperienze. Una realtà di cooperazione sociale il cui capitale principale sono le persone. Cosa vuol dire essere anticapitalisti, oggi, nel pieno della più grave crisi degli ultimi cent'anni?
Vuol dire aprirsi, liberarsi dalla paura, cercare la libertà e non la sicurezza. Guardare all'Argentina, alla Grecia, alle campagne d'India. Tutto cambierà. Il maremoto è in atto. Se scappiamo, l'onda ci raggiungerà comunque e ci travolgerà. Dobbiamo imparare a fare surf, costruire officine per le tavole e regalarle a tutti, organizzare corsi per cavalcare onde, ed inventarci tecniche perché possano farlo tutti. E sabotare i depositi di combustibile e le raffinerie, da cui traggono alimento i mostri che feriscono la terra. A noi basta il sole per illuminarci e riscaldarci di giorno, il fuoco per farlo di notte, l'acqua e il vento per muoverci, la terra per riprodurci. Spero di non passare per primitivista, non è questo...

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