martedì 24 luglio 2012

La sentenza sull’acqua: quando il “pubblico” è campo di battaglia


di GISO AMENDOLA
Nessun dubbio. La sentenza della Corte costituzionale, che dichiara illegittime le misure che avevano reintrodotto, dopo l’abrogazione referendaria, gli obblighi per gli Enti locali a privatizzare la quasi totalità dei servizi pubblici, è una grande soddisfazione per i movimenti che si sono spesi su questo fronte, e legittima è l’esultanza. Ma, come spesso accade quando si vince, la vittoria, e i modi in cui essa si ottiene, ci proiettano subito in un nuovo campo di lotte. E questo richiede aggiornamenti, trasformazioni, ricollocazioni strategiche, soprattutto quando, ed è questo il caso, la vittoria non ci consegna semplicemente risultati “da difendere”, ma produce un quadro estremamente dinamico, ricchissimo di potenzialità, ma anche di rischi nascosti. Chi pensa di difendere il tesoro conquistato, come sempre, lo perderà. Sulla sentenza, già molto è stato detto dai movimenti, e, con grande precisione, dai giuristi che li hanno affiancati, a partire dall’articolo di Ugo Mattei e Alberto Lucarelli pubblicato dal Manifesto. Qualche spunto in prospettiva, però, può tornare utile, specie sul quadro “costituzionale” che questa sentenza apre, e sui rapporti tra pubblico, beni comuni, e comune: questione, quest’ultima, per nulla fumosamente ideologica, come con qualche sufficienza a volte sentiamo dire, ma che riguarda concretissimi problemi di strategia e di azione, anche locale.

Primo punto: al di là dell’esultanza per la difesa della “volontà popolare”, espressa dalla Corte costituzionale, questa sentenza dichiara esplicitamente che la Costituzione è oramai un terreno mobile, un piano di modificazioni dinamiche, di fratture e di tentativi di ricomposizione. Il punto, dice la Corte, è che le norme reintrodotte – soprattutto con i vincoli tassativi che impediscono la gestione “in house”, con società a capitale integralmente pubblico, dei servizi – violano sia lo spirito che la lettera della consultazione referendaria, che le aveva appena abrogate. A volte, che sfacciataggine! – le riproducono letteralmente, con la sola accortezza di escludere l’acqua dal novero dei servizi da privatizzare. La Corte qui insegna un po’ di galateo costituzionale, e annulla le norme insolenti. Non sembrerebbe nulla di particolare: è l’arbitro che decide di fare l’arbitro, il che, certo, in un sistema costituzionale come il nostro, sarebbe in effetti già una grossa novità. Scherzi a parte, Mattei e Lucarelli hanno ragione a segnalare, invece, la portata della cosa: con la vaghezza dei precedenti e in un sistema costituzionale “rappresentativo”,  la questione di ciò che il legislatore non può fare, dopo un referendum, è di quelle per nulla scontate. Ma la cosa più interessante, è che anche la Corte costituzionale sa benissimo che il suo intervento è di quelli che “muovono le cose”, e, infatti, spiega il proprio operato con un inciso della sentenza molto particolare. Si spinge, infatti, a dichiarare esplicitamente che il sistema costituzionale è in una fase evolutiva, e che bisogna ragionare “in prospettiva”. Ci si muove, certo, dice la Corte, “alla luce di una interpretazione unitaria della trama costituzionale” , ma anche “in una prospettiva di integrazione degli strumenti di democrazia diretta nel sistema di democrazia rappresentativa delineato dal dettato costituzionale”. Insomma, la “trama” sarà pure “unitaria”, ma questa “unità” richiede interventi, bisogna continuamente metterci mano. Il sistema rappresentativo va “integrato”: cosa che certo la corte ricava già dal sistema stesso, ma anche con la “nuova” consapevolezza che bisogna accelerare, fare iniezioni di democrazia diretta.
Ora, se i giudici corrono ai ripari, e provano ad integrare, con ago e filo, la “trama”, ai movimenti starebbe di produrre, al contrario, innovazione costituente. Aprire quegli spazi di dinamicità e trasformazione, che la stessa Corte è costretta a rilevare, per poi cercare di correre ai ripari. Si tratta di difendere, allora, gli strumenti di democrazia diretta, già offerti dalla costituzione? Anche quello, certo. Ma soprattutto, si tratta di produrre altri dispositivi diretti, dispositivi democratici che allarghino quella benedetta trama. A giudici – intelligenti – che sanno di dover “integrare”, bisogna rispondere con l’immaginazione costituente. Più o meno, è quello che viene fuori dagli Occupy: utilizzo, certo, di strumenti dentro il quadro costituzionale, come i referendum, ma, contemporaneamente, costruzione di riappropriazione della decisione, oltre la “trama” data del disegno costituzionale. Intanto, la cosa è di quelle da non sottovalutare: la dinamicità del campo costituzionale – e forse persino la presa d’atto di una non unitarietà, dell’affacciarsi di un dualismo profondo – è entrata ora persino nelle sentenze della Corte italiana.
2. La prospettiva aperta dalla sentenza è particolarmente dinamica e in evoluzione, anche direttamente nel merito della questione dei servizi pubblici. Qui bisogna attrezzarsi davvero fuori dai trionfalismi. Prima osservazione: la Corte non dice affatto, come pure volevano le regioni ricorrenti, che la questione sia già risolta al livello comunitario, e che quindi interventi limitativi del legislatore sarebbero in ogni caso da escludere. Il diritto comunitario non è tale da escludere un bel niente: è il referendum che rende incostituzionali quelle specifiche norme reintrodotte, ma il quadro comunitario è e resta aperto a (quasi) tutto. Non c’è che dire: la Corte sa bene di essere uno snodo della governance, che i livelli europei e nazionali non si articolano più a piramide. E che quindi, il campo è attraversabile da ogni lato. Ci sarebbe da rispondere, subito, che anche per i movimenti dei commons e dei beni comuni, è urgente la consapevolezza che la battaglia nazionale – anche quella referendaria – sta dentro la questione ineludibile della “costituzione europea”, della riapertura, anche e soprattutto a quel livello, di processi costituenti. L’Europa non è il luogo da chiamare in soccorso per difendersi dal legislatore italiano: è evidente che nel corso della battaglia giuridica, ci sta benissimo anche questo, ma lo spazio europeo non deve mai essere accolto come un “dato” dai movimenti italiani, ma come uno spazio di lotte e di connessioni.
Seconda osservazione: nella sua maestria “governamentale”, la Corte sa bene che la sua sentenza non è una difesa dell’”acqua pubblica”. Toglie obblighi introdotti da un legislatore troppo tronfio, che pretendeva di dettare dall’alto la tabella di marcia delle privatizzazioni. Un legislatore, insomma, che – qualsiasi neoliberale serio in fondo avrebbe saputo avvertirlo… – ha peccato di “governare troppo”. Il che significa che la sentenza non sposta per nulla il problema fondamentale che i movimenti per i commons devono affrontare: una volta ottenute le vittorie sul fronte degli obblighi a privatizzare, l’elaborazione in positivo dei dispositivi di effettivo accesso e gestione del comune resta ancora tutta da immaginare, anche se pezzi di sperimentazione cominciano a venir fuori. Ma attenzione: se si pensa che si tratti solo di difendere la “mano pubblica”, il campo, tornato “aperto” grazie alla sentenza, rischia di chiudersi alle nostre spalle in tempi rapidissimi. In pratica: i comuni e le regioni riacquistano ora spazi di decisione e di libertà. Ma se non si progetta una strada d’attacco, fatta di dispostivi che trasformino la battaglia sui servizi e sul Welfare in generale, in una sperimentazione della effettiva gestione comune dei servizi, è da attendersi che la strada delle privatizzazioni, impedita per ora al legislatore, sarà imboccata, in modo palese o occulto, dalle amministrazioni locali. In una fase così aperta, la difesa del “pubblico” in quanto tale rischia di essere la strada più breve perché gli amministratori locali di questo benedetto o maledetto “pubblico”, rimessi pienamente in sella dalla sentenza, diventino amministratori indiscussi dell’accesso e della gestione dei servizi. Dal loro punto di vista, la Corte ha tolto solo dei pesi di troppo: e senza movimenti installati saldamente “oltre il pubblico e il privato”, i ras locali del “pubblico” potrebbero leggere la sentenza della Corte più con un ghigno di soddisfazione che con dispetto. E il sindaco di Roma, in effetti, ieri ghignava…
di GISO AMENDOLA
Nessun dubbio. La sentenza della Corte costituzionale, che dichiara illegittime le misure che avevano reintrodotto, dopo l’abrogazione referendaria, gli obblighi per gli Enti locali a privatizzare la quasi totalità dei servizi pubblici, è una grande soddisfazione per i movimenti che si sono spesi su questo fronte, e legittima è l’esultanza. Ma, come spesso accade quando si vince, la vittoria, e i modi in cui essa si ottiene, ci proiettano subito in un nuovo campo di lotte. E questo richiede aggiornamenti, trasformazioni, ricollocazioni strategiche, soprattutto quando, ed è questo il caso, la vittoria non ci consegna semplicemente risultati “da difendere”, ma produce un quadro estremamente dinamico, ricchissimo di potenzialità, ma anche di rischi nascosti. Chi pensa di difendere il tesoro conquistato, come sempre, lo perderà. Sulla sentenza, già molto è stato detto dai movimenti, e, con grande precisione, dai giuristi che li hanno affiancati, a partire dall’articolo di Ugo Mattei e Alberto Lucarelli pubblicato dal Manifesto. Qualche spunto in prospettiva, però, può tornare utile, specie sul quadro “costituzionale” che questa sentenza apre, e sui rapporti tra pubblico, beni comuni, e comune: questione, quest’ultima, per nulla fumosamente ideologica, come con qualche sufficienza a volte sentiamo dire, ma che riguarda concretissimi problemi di strategia e di azione, anche locale.
Primo punto: al di là dell’esultanza per la difesa della “volontà popolare”, espressa dalla Corte costituzionale, questa sentenza dichiara esplicitamente che la Costituzione è oramai un terreno mobile, un piano di modificazioni dinamiche, di fratture e di tentativi di ricomposizione. Il punto, dice la Corte, è che le norme reintrodotte – soprattutto con i vincoli tassativi che impediscono la gestione “in house”, con società a capitale integralmente pubblico, dei servizi – violano sia lo spirito che la lettera della consultazione referendaria, che le aveva appena abrogate. A volte, che sfacciataggine! – le riproducono letteralmente, con la sola accortezza di escludere l’acqua dal novero dei servizi da privatizzare. La Corte qui insegna un po’ di galateo costituzionale, e annulla le norme insolenti. Non sembrerebbe nulla di particolare: è l’arbitro che decide di fare l’arbitro, il che, certo, in un sistema costituzionale come il nostro, sarebbe in effetti già una grossa novità. Scherzi a parte, Mattei e Lucarelli hanno ragione a segnalare, invece, la portata della cosa: con la vaghezza dei precedenti e in un sistema costituzionale “rappresentativo”,  la questione di ciò che il legislatore non può fare, dopo un referendum, è di quelle per nulla scontate. Ma la cosa più interessante, è che anche la Corte costituzionale sa benissimo che il suo intervento è di quelli che “muovono le cose”, e, infatti, spiega il proprio operato con un inciso della sentenza molto particolare. Si spinge, infatti, a dichiarare esplicitamente che il sistema costituzionale è in una fase evolutiva, e che bisogna ragionare “in prospettiva”. Ci si muove, certo, dice la Corte, “alla luce di una interpretazione unitaria della trama costituzionale” , ma anche “in una prospettiva di integrazione degli strumenti di democrazia diretta nel sistema di democrazia rappresentativa delineato dal dettato costituzionale”. Insomma, la “trama” sarà pure “unitaria”, ma questa “unità” richiede interventi, bisogna continuamente metterci mano. Il sistema rappresentativo va “integrato”: cosa che certo la corte ricava già dal sistema stesso, ma anche con la “nuova” consapevolezza che bisogna accelerare, fare iniezioni di democrazia diretta.
Ora, se i giudici corrono ai ripari, e provano ad integrare, con ago e filo, la “trama”, ai movimenti starebbe di produrre, al contrario, innovazione costituente. Aprire quegli spazi di dinamicità e trasformazione, che la stessa Corte è costretta a rilevare, per poi cercare di correre ai ripari. Si tratta di difendere, allora, gli strumenti di democrazia diretta, già offerti dalla costituzione? Anche quello, certo. Ma soprattutto, si tratta di produrre altri dispositivi diretti, dispositivi democratici che allarghino quella benedetta trama. A giudici – intelligenti – che sanno di dover “integrare”, bisogna rispondere con l’immaginazione costituente. Più o meno, è quello che viene fuori dagli Occupy: utilizzo, certo, di strumenti dentro il quadro costituzionale, come i referendum, ma, contemporaneamente, costruzione di riappropriazione della decisione, oltre la “trama” data del disegno costituzionale. Intanto, la cosa è di quelle da non sottovalutare: la dinamicità del campo costituzionale – e forse persino la presa d’atto di una non unitarietà, dell’affacciarsi di un dualismo profondo – è entrata ora persino nelle sentenze della Corte italiana.
2. La prospettiva aperta dalla sentenza è particolarmente dinamica e in evoluzione, anche direttamente nel merito della questione dei servizi pubblici. Qui bisogna attrezzarsi davvero fuori dai trionfalismi. Prima osservazione: la Corte non dice affatto, come pure volevano le regioni ricorrenti, che la questione sia già risolta al livello comunitario, e che quindi interventi limitativi del legislatore sarebbero in ogni caso da escludere. Il diritto comunitario non è tale da escludere un bel niente: è il referendum che rende incostituzionali quelle specifiche norme reintrodotte, ma il quadro comunitario è e resta aperto a (quasi) tutto. Non c’è che dire: la Corte sa bene di essere uno snodo della governance, che i livelli europei e nazionali non si articolano più a piramide. E che quindi, il campo è attraversabile da ogni lato. Ci sarebbe da rispondere, subito, che anche per i movimenti dei commons e dei beni comuni, è urgente la consapevolezza che la battaglia nazionale – anche quella referendaria – sta dentro la questione ineludibile della “costituzione europea”, della riapertura, anche e soprattutto a quel livello, di processi costituenti. L’Europa non è il luogo da chiamare in soccorso per difendersi dal legislatore italiano: è evidente che nel corso della battaglia giuridica, ci sta benissimo anche questo, ma lo spazio europeo non deve mai essere accolto come un “dato” dai movimenti italiani, ma come uno spazio di lotte e di connessioni.
Seconda osservazione: nella sua maestria “governamentale”, la Corte sa bene che la sua sentenza non è una difesa dell’”acqua pubblica”. Toglie obblighi introdotti da un legislatore troppo tronfio, che pretendeva di dettare dall’alto la tabella di marcia delle privatizzazioni. Un legislatore, insomma, che – qualsiasi neoliberale serio in fondo avrebbe saputo avvertirlo… – ha peccato di “governare troppo”. Il che significa che la sentenza non sposta per nulla il problema fondamentale che i movimenti per i commons devono affrontare: una volta ottenute le vittorie sul fronte degli obblighi a privatizzare, l’elaborazione in positivo dei dispositivi di effettivo accesso e gestione del comune resta ancora tutta da immaginare, anche se pezzi di sperimentazione cominciano a venir fuori. Ma attenzione: se si pensa che si tratti solo di difendere la “mano pubblica”, il campo, tornato “aperto” grazie alla sentenza, rischia di chiudersi alle nostre spalle in tempi rapidissimi. In pratica: i comuni e le regioni riacquistano ora spazi di decisione e di libertà. Ma se non si progetta una strada d’attacco, fatta di dispostivi che trasformino la battaglia sui servizi e sul Welfare in generale, in una sperimentazione della effettiva gestione comune dei servizi, è da attendersi che la strada delle privatizzazioni, impedita per ora al legislatore, sarà imboccata, in modo palese o occulto, dalle amministrazioni locali. In una fase così aperta, la difesa del “pubblico” in quanto tale rischia di essere la strada più breve perché gli amministratori locali di questo benedetto o maledetto “pubblico”, rimessi pienamente in sella dalla sentenza, diventino amministratori indiscussi dell’accesso e della gestione dei servizi. Dal loro punto di vista, la Corte ha tolto solo dei pesi di troppo: e senza movimenti installati saldamente “oltre il pubblico e il privato”, i ras locali del “pubblico” potrebbero leggere la sentenza della Corte più con un ghigno di soddisfazione che con dispetto. E il sindaco di Roma, in effetti, ieri ghignava…


di GISO AMENDOLA
Nessun dubbio. La sentenza della Corte costituzionale, che dichiara illegittime le misure che avevano reintrodotto, dopo l’abrogazione referendaria, gli obblighi per gli Enti locali a privatizzare la quasi totalità dei servizi pubblici, è una grande soddisfazione per i movimenti che si sono spesi su questo fronte, e legittima è l’esultanza. Ma, come spesso accade quando si vince, la vittoria, e i modi in cui essa si ottiene, ci proiettano subito in un nuovo campo di lotte. E questo richiede aggiornamenti, trasformazioni, ricollocazioni strategiche, soprattutto quando, ed è questo il caso, la vittoria non ci consegna semplicemente risultati “da difendere”, ma produce un quadro estremamente dinamico, ricchissimo di potenzialità, ma anche di rischi nascosti. Chi pensa di difendere il tesoro conquistato, come sempre, lo perderà. Sulla sentenza, già molto è stato detto dai movimenti, e, con grande precisione, dai giuristi che li hanno affiancati, a partire dall’articolo di Ugo Mattei e Alberto Lucarelli pubblicato dal Manifesto. Qualche spunto in prospettiva, però, può tornare utile, specie sul quadro “costituzionale” che questa sentenza apre, e sui rapporti tra pubblico, beni comuni, e comune: questione, quest’ultima, per nulla fumosamente ideologica, come con qualche sufficienza a volte sentiamo dire, ma che riguarda concretissimi problemi di strategia e di azione, anche locale.
Primo punto: al di là dell’esultanza per la difesa della “volontà popolare”, espressa dalla Corte costituzionale, questa sentenza dichiara esplicitamente che la Costituzione è oramai un terreno mobile, un piano di modificazioni dinamiche, di fratture e di tentativi di ricomposizione. Il punto, dice la Corte, è che le norme reintrodotte – soprattutto con i vincoli tassativi che impediscono la gestione “in house”, con società a capitale integralmente pubblico, dei servizi – violano sia lo spirito che la lettera della consultazione referendaria, che le aveva appena abrogate. A volte, che sfacciataggine! – le riproducono letteralmente, con la sola accortezza di escludere l’acqua dal novero dei servizi da privatizzare. La Corte qui insegna un po’ di galateo costituzionale, e annulla le norme insolenti. Non sembrerebbe nulla di particolare: è l’arbitro che decide di fare l’arbitro, il che, certo, in un sistema costituzionale come il nostro, sarebbe in effetti già una grossa novità. Scherzi a parte, Mattei e Lucarelli hanno ragione a segnalare, invece, la portata della cosa: con la vaghezza dei precedenti e in un sistema costituzionale “rappresentativo”,  la questione di ciò che il legislatore non può fare, dopo un referendum, è di quelle per nulla scontate. Ma la cosa più interessante, è che anche la Corte costituzionale sa benissimo che il suo intervento è di quelli che “muovono le cose”, e, infatti, spiega il proprio operato con un inciso della sentenza molto particolare. Si spinge, infatti, a dichiarare esplicitamente che il sistema costituzionale è in una fase evolutiva, e che bisogna ragionare “in prospettiva”. Ci si muove, certo, dice la Corte, “alla luce di una interpretazione unitaria della trama costituzionale” , ma anche “in una prospettiva di integrazione degli strumenti di democrazia diretta nel sistema di democrazia rappresentativa delineato dal dettato costituzionale”. Insomma, la “trama” sarà pure “unitaria”, ma questa “unità” richiede interventi, bisogna continuamente metterci mano. Il sistema rappresentativo va “integrato”: cosa che certo la corte ricava già dal sistema stesso, ma anche con la “nuova” consapevolezza che bisogna accelerare, fare iniezioni di democrazia diretta.
Ora, se i giudici corrono ai ripari, e provano ad integrare, con ago e filo, la “trama”, ai movimenti starebbe di produrre, al contrario, innovazione costituente. Aprire quegli spazi di dinamicità e trasformazione, che la stessa Corte è costretta a rilevare, per poi cercare di correre ai ripari. Si tratta di difendere, allora, gli strumenti di democrazia diretta, già offerti dalla costituzione? Anche quello, certo. Ma soprattutto, si tratta di produrre altri dispositivi diretti, dispositivi democratici che allarghino quella benedetta trama. A giudici – intelligenti – che sanno di dover “integrare”, bisogna rispondere con l’immaginazione costituente. Più o meno, è quello che viene fuori dagli Occupy: utilizzo, certo, di strumenti dentro il quadro costituzionale, come i referendum, ma, contemporaneamente, costruzione di riappropriazione della decisione, oltre la “trama” data del disegno costituzionale. Intanto, la cosa è di quelle da non sottovalutare: la dinamicità del campo costituzionale – e forse persino la presa d’atto di una non unitarietà, dell’affacciarsi di un dualismo profondo – è entrata ora persino nelle sentenze della Corte italiana.
2. La prospettiva aperta dalla sentenza è particolarmente dinamica e in evoluzione, anche direttamente nel merito della questione dei servizi pubblici. Qui bisogna attrezzarsi davvero fuori dai trionfalismi. Prima osservazione: la Corte non dice affatto, come pure volevano le regioni ricorrenti, che la questione sia già risolta al livello comunitario, e che quindi interventi limitativi del legislatore sarebbero in ogni caso da escludere. Il diritto comunitario non è tale da escludere un bel niente: è il referendum che rende incostituzionali quelle specifiche norme reintrodotte, ma il quadro comunitario è e resta aperto a (quasi) tutto. Non c’è che dire: la Corte sa bene di essere uno snodo della governance, che i livelli europei e nazionali non si articolano più a piramide. E che quindi, il campo è attraversabile da ogni lato. Ci sarebbe da rispondere, subito, che anche per i movimenti dei commons e dei beni comuni, è urgente la consapevolezza che la battaglia nazionale – anche quella referendaria – sta dentro la questione ineludibile della “costituzione europea”, della riapertura, anche e soprattutto a quel livello, di processi costituenti. L’Europa non è il luogo da chiamare in soccorso per difendersi dal legislatore italiano: è evidente che nel corso della battaglia giuridica, ci sta benissimo anche questo, ma lo spazio europeo non deve mai essere accolto come un “dato” dai movimenti italiani, ma come uno spazio di lotte e di connessioni.
Seconda osservazione: nella sua maestria “governamentale”, la Corte sa bene che la sua sentenza non è una difesa dell’”acqua pubblica”. Toglie obblighi introdotti da un legislatore troppo tronfio, che pretendeva di dettare dall’alto la tabella di marcia delle privatizzazioni. Un legislatore, insomma, che – qualsiasi neoliberale serio in fondo avrebbe saputo avvertirlo… – ha peccato di “governare troppo”. Il che significa che la sentenza non sposta per nulla il problema fondamentale che i movimenti per i commons devono affrontare: una volta ottenute le vittorie sul fronte degli obblighi a privatizzare, l’elaborazione in positivo dei dispositivi di effettivo accesso e gestione del comune resta ancora tutta da immaginare, anche se pezzi di sperimentazione cominciano a venir fuori. Ma attenzione: se si pensa che si tratti solo di difendere la “mano pubblica”, il campo, tornato “aperto” grazie alla sentenza, rischia di chiudersi alle nostre spalle in tempi rapidissimi. In pratica: i comuni e le regioni riacquistano ora spazi di decisione e di libertà. Ma se non si progetta una strada d’attacco, fatta di dispostivi che trasformino la battaglia sui servizi e sul Welfare in generale, in una sperimentazione della effettiva gestione comune dei servizi, è da attendersi che la strada delle privatizzazioni, impedita per ora al legislatore, sarà imboccata, in modo palese o occulto, dalle amministrazioni locali. In una fase così aperta, la difesa del “pubblico” in quanto tale rischia di essere la strada più breve perché gli amministratori locali di questo benedetto o maledetto “pubblico”, rimessi pienamente in sella dalla sentenza, diventino amministratori indiscussi dell’accesso e della gestione dei servizi. Dal loro punto di vista, la Corte ha tolto solo dei pesi di troppo: e senza movimenti installati saldamente “oltre il pubblico e il privato”, i ras locali del “pubblico” potrebbero leggere la sentenza della Corte più con un ghigno di soddisfazione che con dispetto. E il sindaco di Roma, in effetti, ieri ghignava…





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