venerdì 21 settembre 2012

Ripartire dalla terra

Sull’esperienza di Terrecomuni in Calabria riportiamo l'articolo di Michele Giacomoantonio pubblicato sul Corriere della Calabria di questa settimana


I beni comuni sono quelli il cui uso, per consuetudine, storia, tradizione culturale, è patrimonio di tutti. Si tratta di terreni, ma anche di immobili dismessi, come vecchie masserie, oggi assorbiti come proprietà dei comuni cui lo Stato dà la possibilità di vederli. Contro questa eventualità, tutt’altro che remota considerata la crisi e il bisogno di liquidità da parte di molte amministrazioni, nasce un progetto di riuso di questi beni attraverso la loro restituzione alla proprietà civica. Questa idea nasce nel dipartimento di Sociologia dell’Università della Calabria e coinvolge anche numerose amministrazioni comunali. E’ uno dei casi in cui una ricerca accademica non resta nel chiuso delle stanze dei sociologi, ma cerca la possibilità di un effetto diretto sull’economia dei territori.

“Noi ci occupiamo di sociologia rurale – spiega Annamaria Vitale -  studiamo quello che si definisce “il modello contadino”, cioè il lavoro dei piccoli agricoltori protagonisti di una forma di economia sociale”. L’idea è quella di studiare e promuovere gli usi civici dei territori calabresi, gli usi cioè che le persone si sono tramandate del luogo dove abitano. Oggi i comuni possono alienare questi beni, mentre dall’università viene la proposta di restituirli ad un uso civico. Alla fine si tratta di una delle forme attraverso cui si protrae l’eterno duello tra una modello di sviluppo economico per adesso vincente, che vede nel vendere ai privati un modo per far cassa nell’immediatezza e dall’altra una forma di valorizzazione dei beni che invece investe nel medio termine, promuovendo un uso sociale i cui profitti sono più lenti nell’arrivare, ma promettono il rilancio di economie endogene. Si tratta di avere il coraggio e la lungimiranza di lasciare che la proprietà del patrimonio resti sul territorio e venga sfruttato dai cittadini. “Se i comuni vendessero questi beni comuni, dimostrerebbero di essere slegati rispetto alla storia dei luoghi e lontani dalle persone”, dice senza indugi Annamaria Vitale, che ci tiene a sottolineare l’aspetto tutt’altro che teorico della ricerca che viene annunciata. Censire e mappare i beni comuni infatti non è per nulla facile. “Ci si deve muovere con cautela dentro una selva complessa di norme giuridiche, alcune delle quali risalgono al codice napoleonico, altre più recenti al Fascismo”, dice Enzo Piperno, uno delle “menti” del progetto, spiegando che esiste ancora una distinzione tra patrimonio comunale, patrimonio demaniale e beni comuni. Oggi con la normativa vigente ogni cosa è finita nell’indistinto calderone del Demanio, la ricerca vuole far rivivere quei beni una volta condivisi tra le persone e restituirli a un uso civico. “Il rischio è che su un terreno ceduto da un comune a qualche impresa privata, sorga per esempio una centrale per la produzione di energia. Ebbene in questo caso gli effetti sarebbero paradossali, perché non solo verrebbe prodotta una ricchezza che non resterebbe sul territorio, ma si sottrarrebbe quel terreno ad altri usi, che potrebbe essere utilizzato con finalità assai diverse e certamente più coerenti con la storia e le persone stesse”, prosegue Piperno.
La ricerca muove i primi passi da uno studio della condizione attuale, ma trova la sua spinta nei dati che confermano che non pochi giovani sarebbero disposti a impiegare tempo e risorse dando vita a imprese agricole, “ma l’accesso alle terre è tutt’altro che facile”, come precisa con puntualità Silvia Sivini. Di qui l’opportunità concreta che verrebbe dallo studio che sta per partire dal dipartimento di Sociologia. Dopo aver mappato e individuato i beni comuni, si cercherà di fare rete con i comuni interessati a un investimento puntato sul territorio e sulla qualità sociale dell’economia diffusa, rinunciando all’incasso che verrebbe dalla vendita dei beni, investendo invece sul loro uso sociale.
A dare forza a questo lavoro che coniuga l’aspetto teorico della ricerca con quello pratico della scommessa economico-politica, ecco che nasce il comitato Terre comuni. “Si tratta di una associazione formata da cittadini attivi – spiegano presso il dipartimento dell’Unical – che intendono affrontare questo problema”. E’ una questione che a un certo punto esce risolutamente dal chiuso delle stanze dell’università, per assumere una dimensione politica ed economica. Se i beni comuni vengono venduti, si perdono consuetudini, ma con esse anche diritti, perché al posto dei cittadini subentrerebbero enti che farebbero di quei beni un uso diverso da quello che con più sapienza saprebbero fare le persone del luogo.
Nello scontro tra l’economia di mercato, che esige la vendita dei beni, e l’ipotesi di un uso civico e non privato di quegli stessi beni, sembra di poter intravedere una forma di neo meridionalismo, capace di rivendicare modelli di sviluppo endogeno e maggiormente sostenibile, sia dal punto di vista sociale che ambientale. Del resto quale difesa del territorio può esserci, “senza la riappropriazione della responsabilità comune dei beni”?, si chiede retoricamente Piperno. Perché appare chiaro che dare vita a un uso civico di un patrimonio significa riempirlo di senso e averne la responsabilità, dunque averne cura.
Ma la Calabria non è la prima ad affrontare questo tema. “L’università di Trento è su questo tema molto avanti, avendo da tempo elaborato ricerche che hanno trovato una applicazione concreta nell’uso civico degli alpeggi”, rivela ancora la Vitale. Il senso della necessità di una inversione di tendenza riguardo l’egemonia dell’idea di una privatizzazione degli spazi, cresce a gran velocità. Uno dei segni viene sempre dai racconti dei Silvia Sivini, che ancora non nasconde lo stupore per il successo del convegno organizzato a giugno su questi temi e che ha visto, malgrado le scarsissime risorse utilizzate per divulgarlo, una massiccia presenza di persone, tra cui amministratori e giovani che volevano partecipare a un dibattito che promette un mutamento di rotta, che è al tempo stesso culturale, politico ed economico. La rete attorno a questo studio e a questa idea per certi aspetti “sovversiva” dell’uso dei beni comuni cresce. “La ricerca avrà un centro pilota presso il comune di San Giovanni in Fiore, e abbiamo la partecipazione di comuni dell’area grecanica e dall’alto Tirreno”, racconta ottimista Annamaria Vitale. La battaglia tra il Davide dell’economia sociale e il Golia del mercato conosce una nuova edizione.

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