domenica 8 luglio 2012

Monti non può svendere quello che non è suo


Sarà un edificio scolastico o un’antica struttura adibita a caserma? Sarà un appezzamento di terra della collina calabrese o un casello delle Ferrovie Calabro –lucane? O più probabilmente tutti quanti insieme i “beni” che lo stato e gli enti locali venderanno. Servono quattrini signori e non si può star qui a discutere. D’altronde sono tutti lì a sollecitare il governo perché alieni i beni pubblici: lo fanno i sindacati e lo fanno i partiti, lo fanno gli industriali e gli economisti. Sarà il Ministero dell’economia e l’Agenzia del demanio a definire una prima lista di 350 beni da mettere in vendita estraendola da un elenco di 13mila beni la cosiddetta “white list”. Sperano di ricavarne qualcosa come 1,5 miliardi di euro. E’ facile immaginare che da quella “white list” si cercherà di attingere senza fine fino al suo esaurimento.

Una decisione coerente con l’articolo 66 del cosiddetto decreto salva-Italia che prevede che “Entro il 30 giugno di ogni anno, il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali, con decreto di natura non regolamentare da adottare d’intesa con il Ministero dell’economia e delle finanze, anche sulla base dei dati forniti dall’Agenzia del demanio nonché su segnalazione dei soggetti interessati, individua i terreni agricoli e a vocazione agricola, non utilizzabili per altre finalità istituzionali, di proprietà dello Stato non ricompresi negli elenchi predisposti ai sensi del decreto legislativo 28 maggio 2010, n. 85, nonché di proprietà degli enti pubblici nazionali, da alienare a cura dell’Agenzia del demanio mediante procedura negoziata senza pubblicazione del bando per gli immobili di valore inferiore a 100.000 euro e mediante asta pubblica per quelli di valore pari o superiore a 100.000 euro. L’individuazione del bene ne determina il trasferimento al patrimonio disponibile dello Stato”.
Usare, abusare e approfittare di beni che sono propri delle comunità che questi beni hanno quasi sempre costruito e curato e custodito, beni che fanno parte integrante dei luoghi, dei loro paesaggi e delle identità stesse delle comunità, è un atto di insopportabile prepotenza, inaccettabile. I beni comuni non si vendono. L’uso e la gestione dei beni comuni lo decidono le comunità. Affermare questo principio significa impedire che l’uso del territorio nelle diverse località della Calabria venga determinato da interessi lontani e in contrasto con quelle delle comunità. Si può ‘comprare’ terreno per impiantarvi una centrale elettrica o per costruirvi un ipermercato? Si può accettare che gli equilibri dei luoghi e le condizioni di vita vengano determinate da interessi estranei al territorio? Niente ci dice l’infelice vicenda dello “sviluppo industriale” della Regione?
Le associazioni e le reti impegnate nella difesa del territorio, del paesaggio, nella diffusione di forme di democrazia partecipata hanno espresso il loro rifiuto e l’impegno per fare in modo che questa vendita non passi. Sarà la fantasia e l’inventiva delle associazioni che saprà trovare le forme di lotta per opporsi a queste decisioni. Noi qui ne proponiamo una che parte dalla messa in dubbio del diritto dello Stato o dell’Ente locale a vendere. Più di una volta, infatti, l’amministrazione pubblica procede alla vendita di beni che non sono di sua proprietà. Proprio così: non sono di sua proprietà perché sono beni collettivi, sono per esempio terreni gravati da usi civici e quindi in quanto tali “continuano ad essere INALIENABILI, INUSUCAPIBILI IMPRESCRITTIBILI e IMMUTABILI nella loro destinazione agrosilvopastorale” come ha ribadito in un appello che trovate nel sito la Consulta nazionale della proprietà collettiva. Che afferma quindi come “queste vendite dal punto di vista giuridico si configurano come reati, nei cui confronti l’Autorità giudiziaria verrà chiamata ad intervenire per accertare le responsabilità dei singoli”.
Pretendiamo quindi, fra le altre cose, la verifica giuridica del diritto a disporre di quel bene. Non si tratta, è ovvio, di attribuire a questa verifica un carattere dirimente ma solo di cogliere la possibilità di complicare le procedure di vendita, ma forse, soprattutto, di ricostruire chi ha posseduto quel bene, da chi e come è stato usato e di scoprire per questa via nella maggior parte dei casi le storie e le vicende di una comunità e quindi un legame ancor più forte con tutto ciò che è parte di quei luoghi.

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