domenica 1 luglio 2012




Pubblichiamo un articolo di Fabio Parascandolo, autore di molti saggi e studi
sui temi delle terre comuni, in particolare in Sardegna. L'autore ha
partecipato il 9 giugno scorso all'incontro organizzato da Terrecomuni
Calabria.



Elementi di storia ecologica della comunita’ di Atzara (NU) tra l’Ottocento e gli anni Settanta del Novecento
di Fabio Parascandolo
Bozza di lavoro, corrispondente in parte al documento pubblicato col titolo  “Agricoltura e vita comunitaria in un paese della Sardegna (Sec. XIX-XX)”, in «I frutti di Demetra», n. 17, dicembre 2008, pp. 45-55.

Questo saggio tratteggia alcuni esiti di una ricerca geostorica mirante a studiare la comunità atzarese dall’età moderna sino ai giorni nostri[1], ed è in particolar modo riferito al periodo indicato nel titolo. Si è tenuto conto dei rapporti interconnessi fra la comunità locale e il suo agroecosistema di riferimento per indagare sulle pratiche sociali e sulle attività economiche che nel corso del tempo hanno permesso ai suoi abitanti di sostentarsi e risiedere in quel territorio.
Il centro medio-piccolo di Atzara faceva parte della regione  storica del Mandra-e-Lisai (oggi Mandrolisai) e vi è a tutt’oggi collocato a 540 metri slm.
L’acqua di cui rifornirsi in paese si trovava in quattro fonti disposte a breve distanza dall’abitato, che è favorevolmente situato a  questo riguardo. Il compito di prelevare l’acqua e portarla nelle case spettava alle donne dei nuclei domestici.

 Se è vero che le viti e il vino rappresentavano per gli atzaresi un fondamentale strumento per procurarsi del denaro, non si può però dire che nella loro condizione tradizionale gli abitanti del villaggio si fossero integralmente specializzati nella produzione vinicola: difatti in un’economia agricola di sussistenza qual’era quella di cui ci stiamo occupando ogni elemento dell’agroecosistema e più in generale del territorio rappresentava un fattore  fondamentale cui attingere ciclicamente per il soddisfacimento di tantissimi bisogni locali dei nuclei familiari.
Fondamentale per la comunità locale era la produzione e il consumo di cereali da cui ricavare le farine per vari tipi di pani che costituivano la base dell’alimentazione. Anche per la cerealicoltura estensiva il territorio comunale risultava  favorevolmente strutturato, con abbondanza di terreni adatti disposti in varie giaciture attorno all’abitato.
Piuttosto che elencare sistematicamente altri frutti della terra o le loro trasformazioni con cui si nutrivano o si difendevano dalle intemperie gli atzaresi (una ricerca che noi abbiamo solo sfiorato e che andrebbe ripresa e approfondita), illustreremo gli aspetti strutturali della loro economia premoderna:

Sebbene geograficamente, storicamente ed economicamente ben differenziate tra loro, le economie agricole del passato erano generalmente accomunate dalla necessità di mantenere un equilibrio ecologico a scala locale tra la fertilità delle terre e l’intensità dei prelievi agro-silvo-pastorali. L’applicazione di questo meccanismo regolativo era indispensabile per non superare le capacità di carico degli ecosistemi agrari, e consentiva la ricostituzione naturale delle risorse ambientali rinnovabili.
Anche dalla letteratura concernente i lineamenti storici delle collettività rurali sarde si può evincere questo carattere di radicamento ecologico delle comunità ai loro specifici ambienti di vita. Ogni collettività fondava la sua riproduzione materiale su un sistema di prelievi diversificati dei beni ambientali disponibili nel territorio di pertinenza comunitaria. Questo era articolato in settori agrari distinti e circoscritti, conosciuti ed utilizzati secondo specifiche tradizioni culturali. In queste economie di sussistenza, vernacolari e localizzate, il rispetto dei vincoli ecologici nell’attivazione delle risorse locali era indispensabile, pena la rarefazione di alimenti ed altri beni necessari alla vita comunitaria. Come regola generale, i modelli di responsabilità collettiva nella gestione delle risorse assumevano una funzione regolatrice nei confronti degli interessi particolari presenti nelle comunità. Le tendenze privatistiche e competitive dovevano conciliarsi con l’irriducibile necessità di cooperare per il bene comune di ciascuna società locale.
Scendendo un po’ più in dettaglio, indicheremo alcuni aspetti essenziali del sistema economico premoderno. i quali gradualmente sbiadiscono fino ad estinguersi al seguito delle riforme giuridiche del secolo XIX. Data una comunità-tipo, essi consistono:
1) Nel governo comunitario dei tempi, degli spazi e dei modi di prelievo e trasformazione dei beni ambientali, fondato in buona parte su forme non privatistiche di accesso alla terra (possesso collettivo). La sussistenza si realizza primariamente in rapporto al territorio utilizzato dalla società locale mediante i suoi specifici dispositivi agrari: rotazioni colturali obbligatorie, compascuo, usi civici dei boschi, ecc.
2) Nella pressocché completa autosufficienza locale sotto il profilo alimentare ed energetico. Questa però è raggiunta solo alla scala dell’intera collettività rurale, e si basa sull’interdipendenza delle famiglie componenti la comunità, le quali non sono mai del tutto autonome se prese singolarmente. I circuiti di reciprocità parentale e vicinale (doni in natura e prestazioni di servizi) e le specializzazioni produttive infra-comunitarie (mai accentuate come quelle moderne, tuttavia) consentono il conseguimento dell’autosufficienza collettiva.
3) Nell’acquisto di ciò che non può essere ottenuto con le forme di autoconsumo e reciprocità interne alla collettività locale. Questo avviene soprattutto durante particolari occasioni di incontro inter-comunitario (sagre, feste, mercati, ecc.). Sono così vantaggiosamente canalizzati gli scambi di produzioni particolari (artigianato locale specializzato), come di eventuali sovrapproduzioni e produzioni agrarie prevalenti di ciascuna collettività.
Sicuramente il maggior carattere distintivo di queste società tradizionali (e di quelle precapitalistiche in genere) è che in esse le transazioni economiche sono incorporate nelle relazioni sociali. (PARASCANDOLO, 1995, pp. 161-162).

Per tutto il XIX secolo ad Atzara fu dunque praticata una agricoltura contadina di sussistenza, indispensabile al sostentamento alimentare e funzionale alla riproduzione della vita materiale e simbolica della popolazione locale. Vi si provvedeva mediante molteplici pratiche, sovente multifunzionali (ad esempio: dalla trebbiatura delle spighe di frumento si ottenevano al contempo il raccolto in grano per l’alimentazione umana e  la paglia usata sia per il bestiame che per la fabbricazione dei mattoni di terra cruda impiegati nell’edilizia locale). Ciò che non era prodotto in loco o era insufficiente a causa di limitazioni naturali o climatiche veniva ottenuto mediante circuiti di scambio in natura con i villaggi più o meno vicini. E’ questo il caso del lino che veniva filato e tessuto dalle donne in gran quantità in tutte le case in quanto materia base per il confezionamento di vestiti e sacchi, e che tuttavia proveniva da Samugheo o Busachi, dove le condizioni ambientali per la sua lavorazione erano migliori. Lo stesso valeva per prodotti alimentari o manifatturieri di zone  vicine poste a mggiore altitudine: patate o castagne da Desulo, nocciole da Tonara,  ecc. Gli scambi avvenivano attraverso forme di commercio non necessariamente professionale, ambulante o anche con bestie da soma, che si svolgeva da e verso centri vicini. Ad esempio, una informatrice novantenne ci ha detto che per anni si recava periodicamente a Desulo con l’asino portandovi pane ‘e sapa e fichi d’india e ritornandone con patate. Le produzioni di zone più basse e lontane, come le arance dei Campidani, erano tendenzialmente disponibili in occasioni speciali: per esempio alla fiera di S. Mauro, che si svolgeva a maggio.  
Queste attività agricole “arcaiche” e queste pratiche economiche autocentrate non erano però viste di buon occhio dalle classi dirigenti che risiedevano nei centri urbani, e  questo per la semplice ma sostanziosa ragione che esse non erano orientate alla massimizzazione della circolazione e dell’accumulo del denaro. Essendo fondamentalmente orientata all’autoconsumo, l’ agricoltura tradizionale comportava la vendita del solo surplus dei raccolti, e solo quando le annate favorevoli lo consentivano. Le derrate prodotte con l’esercizio di agricoltura e pastorizia così come i prodotti selvatici dovuti a caccia e  raccolta venivano tra loro scambiati in natura, cioè barattati, a mezzo di equivalenze consuetudinarie (per esempio: 1 litro di latte di pecora = 1 litro di vino = 1 litro di grano, oppure 10 litri di grano = 2 kg di formaggio = un agnello). Anche le paghe per tutti i tipi di lavori eseguiti erano generalmente corrisposte in natura. Si trattava quindi di pratiche economiche non tassabili e che sfuggivano ad ogni regola organizzativa dell’economia formale di mercato.
 Va infine detto che allo scopo di costituire una moderna agricoltura funzionale all’incremento degli scambi commerciali a largo raggio (sia nazionali che internazionali), le classi dirigenti avversavano profondamente il regime agrario consuetudinario di possesso o comunque di uso collettivo della terra che ancora predominava nell’isola, anche se in forma non certo esclusiva. Dal fatidico editto delle chiudende del 1820 in avanti, le loro riforme puntarono alla diffusione della sola proprietà privata della terra, cioè a forme di proprietà perfetta (rigorosamente individualizzata e trasmissibile senza vincoli),  la sola integralmente funzionale al pieno dispiegamento di  un’economia di mercato “libera” e generalizzata. Secondo i nuovi intendimenti borghesi che gradualmente andarono imponendosi fino a diventare egemonici, la terra non andava più considerata come base della sussistenza e come tale legata  a istanze di tutela patrimoniale da parte delle popolazioni locali che la facevano fruttare curando le possibilità di rigenerazione dei suoi molteplici frutti. Essa veniva ridotta a pura merce e fattore di produzione, da attivare nei circuiti mercantili a fini di massimizzazione degli utili derivanti dagli investimenti economici.
In questo senso va ricordata la favorevole situazione geopedologica del territorio atzarese, più favorevole all’esercizio di un’agricoltura “produttivistica” rispetto ad altre zone alto-collinari e montane della Sardegna, che presentavano minori possibilità di ricavare utili consistenti dallo sfruttamento di appezzamenti adatti. Sicuramente l’influsso esercitato fin dal Medio Evo sugli abitanti locali dalla coltivazione della vite nel vicino complesso religioso di San Mauro (costruito intorno al 1100 da monaci Benedettini) aveva fatto prendere presto piede la tendenza al possesso  in forma privata dei campi, e anche se ci mancano dati più precisi possiamo rilevare la netta prevalenza di terreni privati già nella relativa Carta del Real Corpo di Stato Maggiore Generale (detta Carta de Candia e redatta per Atzara entro il  1847).
Lo stesso Angius (1988, p. 49) offre già per gli anni ’30 dell’800 una chiara e significativa testimonianza della vocazione vitivinicola del territorio atzarese, in un passo che merita di essere riportato:

[…] l’attenzione [del colono azzarese] è rivolta principalmente alle vigne, che egli reputa il più importante capo delle sue risorse. Le uve quasi tutte sono nere: non si sa se il vino sia tanto buono, quanto si vanta; ma è certo che grandissima è la sua quantità, la quale non solo basta al consumo prodigioso, che se ne fa per il paese, ma ancora a provvedere ai villaggi circonvicini, Dèsulo, Belvì, Aritzo, Tonara, Ortuèri, Samughèo, Busàchi, Allài, Fordongiànos, ed a molti altri villaggi del Marghine e del Campidano, nei quali luoghi non occorre festa, in cui non vadano cinque o più azzaresi con altrettante botti di vino […].

Anche se il grosso della terra pascolativa e arabile non era posseduta collettivamente dagli atzaresi come avveniva in altre parti dell’isola, almeno due importanti forme di governo comunitario del territorio permasero comunque fino all’avvento del XX secolo:

1) L’alternanza vidazzone/paberile, ovvero la decisione vincolante del consiglio comunitativo su quali terreni destinare alla cerealicoltura (di orzo e grano) e quali lasciare a riposo o destinare alla coltivazione di leguminose o eventualmente al pascolo del bestiame rude. Sull’importanza del controllo collettivo delle pratiche economiche locali è significativa questa testimonianza di un contadino novantenne: -Un tempo neanche vendemmiare si poteva senza che il comune desse il bando.

2) Un’area di densa foresta di più di 200 ha, denominata monte di Crecchi Giassu. E’ l’unica regione del territorio comunale di aspetto  decisamente montano, ed apparteneva integralmente al Comune perché gli abitanti vi esercitassero i diritti di prelievo della legna e altri prodotti naturali.

         Il periodo di passaggio tra Otto e Novecento dovette risultare economicamente molto duro per la gran parte degli Atzaresi. Infatti l’ultimo tratto del secolo XIX fu quella in cui sia il contesto economico generale che le disposizioni legislative emanate dai Governi centrali italiani determinarono pesanti inasprimenti fiscali che furono effettuati anche nei confronti dei proprietari di terreni, per quanto piccoli essi fossero. Per quelli che non potevano pagare sa natìa (presumibile sardizzazione di “donativo”), ovvero i tributi in denaro dovuti allo Stato per il possesso di bestiame, fabbricati e terreni, la soluzione era inflessibile: requisizioni e pignoramenti. In particolare si poteva subire dalla Pretura l’espropriazione di fondi per debito d’imposta, con la loro successiva vendita all’incanto in aste pubbliche. Non abbiamo dati certi, ma alcune interviste effettuate ci hanno lasciato intendere che in questo periodo si produsse rispetto al passato una marcata concentrazione fondiaria, con la conseguente polarizzazione delle fortune disponibili. Poche famiglie di notabili emergenti poterono acquisire un cospicuo patrimonio terriero, in parte a spese di altri soggetti che perdendo i terreni cadevano in disgrazia, col risultato di andare ad ingrossare le fila del locale “proletariato” rurale. A quei tempi le famiglie più sfavorite vivevano strettamente ai limiti della sussistenza, e i loro membri erano continuamente costretti a mettersi al servizio dei proprietarios  per procurarsi il necessario di che vivere per sé e per i figli.
Con la Grande Guerra (1915-1918) e in parte con le Campagne d’Africa che furono intraprese in seguito dal regime fascista, la gioventù maschile atzarese cominciò a “conoscere il mondo” e il microcosmo umano “statico” e per molti versi chiuso su se stesso del paese iniziò ad essere attraversato da nuovi modelli culturali e sociali. Vi furono anche emigrazioni infraregionali verso zone industriali in crescita (in particolare l’area mineraria di Carbonia), dove le prospettive di reddito si presentavano migliori. Ma per quelli che restavano, i prodotti della terra restavano fondamentali nel fornire opportunità di lavoro e vita.
Nel periodo compreso tra le due guerre mondiali e anche oltre, fino a quando un complesso di cambiamenti politici, economici e tecnologici non li scardinarono definitivamente, gli assetti sociali di questa come di tante altre località rurali della Sardegna si articolavano attorno a tre tipi di figure di base:

1) In cima alla scala sociale locale stavano le poche famiglie (non più di una trentina) di grandi o medio-grandi proprietari che detenevano il grosso del bene strategico costituito dalla terra. Questi lo cedevano a pastori o contadini che la mettevano a frutto in cambio di una parte pattuita delle produzioni agrarie annuali (per esempio con contratti agrari di tipo mezzadrile come quello di mes’a pari). Erano per l’appunto queste le famiglie che organizzavano la locale produzione del vino commerciabile, potendo esse permettersi una produzione vinicola di gran lunga superiore al fabbisogno interno.

2) Seguivano in ordine di status decrescente le famiglie di coloro che sulla base di periodici e revocabili accordi con i maggiori proprietari terrieri provvedevano direttamente alla produzione delle risorse agricole di base. Innanzitutto una trentina circa di famiglie di pastori specializzati, proprietari di bestiame ma non necessariamente di terre, poi un numero maggiore di contadini (circa un centinaio famiglie) che possedevano meno terra di quanta potessero coltivarne e svolgevano il ruolo di compartecipanti (gli affittuari o coloni erano rari a quei tempi) dei maggiorenti. Vi era poi  era un cospicuo numero (forse poco più di un centinaio) di famiglie senza terreni  i cui componenti atti al lavoro, sia maschi che femmine, potevano essere definiti braccianti itineranti (seguendo Le Lannou, 1976, pp. 202-206 e p. 205 in particolare).

Tutti questi soggetti potevano essere economicamente gerarchizzati in base a un fattore decisivo per l’economia domestica tradizionale: il possesso o la mancanza di almeno un giogo di buoi (vi erano in paese oltre cento capi di buoi da lavoro negli anni ’30-’40), indispensabili all’aratura delle vigne e dei seminativi, oltre che necessari ai trasporti in genere. Il loro possesso consentiva condizioni di vita meno precarie: il lavoro prestato alla loro guida era meglio retribuito che per i semplici braccianti, la cui paga media negli anni ’30 era particolarmente bassa: una miaggia (misura), ossia 5 litri di grano per ogni giornata di lavoro di 8-10 ore.

3) Vi era infine una varietà di figure sociali non direttamente legate alla produzione agricola ma ad altri servizi ad essa più o meno collegati: artigiani, addetti al commercio o impiegati nella pubblica amministrazione.

Per delineare i nuovi processi socioeconomici che vanno determinandosi dalla fine della seconda guerra mondiale in Atzara come in tutta la Sardegna rurale, faremo riferimento a quanto già sostenuto in un altro nostro studio dedicato a una comunità della Barbagia di Seulo (PARASCANDOLO, 2004, pp. 168-170):

Fino ai primi anni del secondo dopoguerra le comunità di villaggio sarde riuscivano ancora, sia pur tra tante avversità, a gestire i loro mezzi produttivi e riproduttivi, cioè i loro specifici patrimoni culturali ed agroecologici: architettura ed urbanistica popolare, biodiversità del genoma agrario locale (varietà delle razze animali e cultivar vegetali), produzioni artigianali, ecc. I contadini in particolare impiegavano ancora il loro “arretrato” -eppure ecologicamente compatibile- saper fare, pur ottenendo rese derisorie rispetto a quelle agroindustriali. Senonché, i saperi e le risorse tradizionali risultavano completamente inadatti ai nuovi contesti politico-economici che andavano affermandosi, e la loro già precaria tenuta si sarebbe dissolta con l’irruzione delle nuove condizioni strutturali imposte dal mercato mondiale.   
Con la nascita del Mercato Comune Europeo alla fine degli anni ’50, la politica economica nazionale completa il suo passaggio ad un nuovo stadio evolutivo in cui si modificano definitivamente i rapporti sociali basati sull’ormai superato ruralismo fascista. Nel panorama economico italiano susseguente alle ricostruzioni del Piano Marshall si profilava il crescente abbandono del protezionismo doganale ed una rilevante apertura commerciale ai paesi del blocco politico occidentale. Sulla base delle nuove opportunità commerciali, la Sardegna non sarà più solo regione d’esportazione di derrate agricole -il che già avveniva da secoli- ma anche di incrementata importazione delle stesse. E così l’offerta sul mercato regionale di cereali prodotti all’estero a mezzo di avanzate tecnologie agroindustriali e l’impossibilità di produrne a prezzi competitivi nei contesti aziendali tradizionali faranno saltare definitivamente i già precari bilanci economici dei ceti rurali inferiori.
[…] Se per provvedere al sostentamento di singoli e famiglie occorre emigrare o comunque cercare altrove le fonti di reddito -per esempio spostandosi pendolarmente in centri urbani più o meno vicini- questo vuol dire che il territorio comunale è stato espropriato della sua millenaria funzione di fondamento economico della collettività. Se l’accesso alle risorse vitali non passa più o passa solo in forma parziale e subordinata per l’attivazione delle risorse e dei saperi locali collettivamente prodotti e tramandati, ciò vuol dire che  esso ha subìto un fatidico passaggio di scala: è ormai nei reticoli di attività economiche rese disponibili nell’ambito dell’ordine sociale  inglobante (e quindi dei suoi saperi e delle sue istituzioni formali) che bisogna cercare i canali di acquisizione della sussistenza, ormai consumisticamente intesa come “benessere” (ovvero ben-avere) individuale- familiare.
Quindi possiamo dire che nel secondo dopoguerra e oltre, soprattutto dagli anni ‘60, anche a causa del mutato assetto geopolitico ed economico dell’Europa occidentale, i processi di modernizzazione produttiva e di internazionalizzazione commerciale già da tempo avviati in agricoltura presero uno slancio tale che le pratiche agrarie e agricole ne risultarono profondamente trasformate. Negli anni in cui si verificava il cosiddetto miracolo economico italiano l’agricoltura venne presa in considerazione dalle classe dirigenti nazionali e regionali solo nella misura in cui poteva sottostare alle regole della intensificazione e standardizzazione industriale delle produzioni. Ma l’introduzione delle innovazioni tecniche ed economiche fece crollare la redditività dei prodotti agricoli, e solo i grandi proprietari terrieri avevano i mezzi per non soccombere nella nuova situazione economica; chiunque potesse, cambiava al più presto lavoro, preferendo di gran lunga impieghi nell’industria o nei servizi, ovunque si trovassero. Dopo la pausa del fascismo e della seconda guerra mondiale, le emigrazioni di sardi verso le aree industriali estere e ora soprattutto italiane avevano difatti ripreso grande vigore, e anche la comunità atzarese fu vistosamente interessata dal fenomeno.  Da allora è iniziata in paese una fase di massiccio declino demografico.
L’abbandono delle ultime aie alla fine degli anni ’70 e la graduale cessazione della produzione del grano a fini di autoconsumo segna uno dei più evidenti discrimini tra due periodi  ben distinti. Se già negli anni Trenta nei negozi locali si poteva trovare su pane a ‘endere ma le donne atzaresi continuavano comunque a farlo abitualmente da loro, spesso con loro farina o comunque con farina locale, dopo gli anni Settanta nella grandissima parte dei nuclei domestici la situazione si è ormai invertita. Anche se c’è chi fa almeno i dolci in casa, di norma il pane che le famiglie locali mangiano viene comprato, e la farina con cui esso viene prodotto proviene prevalentemente da sistemi agroindustiali e circuiti commerciali transnazionali.
Ai nostri giorni e sin dagli anni ’80  non è più possibile parlare di comunità tradizionale, e basta un dato per convincersene: Al 1981 il Censimento generale della popolazione dell’ISTAT suddivide la popolazione residente attiva per ramo di attività economica in 119 addetti all’agricoltura, 141 all’industria e 140 ai servizi. Il ruolo dell’agricoltura e quindi delle pratiche di attivazione delle risorse ecologiche locali nella formazione del reddito e più in generale nel modellamento della vita sociale del paese è ormai minoritario rispetto ai restanti settori economici. La crescente modernizzazione del modo di vita locale ha quindi comportato un diffuso sganciamento ecologico (anche se non necessariamente affettivo) degli abitanti, e specie delle generazioni più giovani, da loro contesto ambientale di riferimento.
Anche ad Atzara, come in tutta la Sardegna del resto, moltissime tipologie autoctone di autoproduzione e autoconsumo agro-artigianale di alimenti e manufatti di uso comune così come di autocostruzione edilizia sono state ampiamente destrutturate dal contesto socio-economico ed istituzionale (MEC-CEE-UE) evolutosi dal secondo dopoguerra. Le massicce trasformazioni non riguardano d’altronde il solo ambiente coltivato ma anche quello costruito: tra gli anni Sessanta e i Settanta e oltre fino ad oggi il paese cambierà aspetto, modernizzandosi ampiamente nella struttura urbana e nelle dotazioni di servizi per le abitazioni. E difatti proprio l’edilizia (e in particolare le specializzazioni settoriali nella messa in opera di intonaci oppure di  piastrelle) è divenuto il settore economico trainante del paese negli ultimi tempi.
Se nella vita economica di Atzara le attività agricole sono diventate funzionali ai sistemi commerciali e industriali, non per questo le campagne sono state abbandonate in senso stretto, anzi… Sia le condizioni strutturali del comparto agricolo nell’isola (maggiore remuneratività delle produzioni animali rispetto  a quelle vegetali) che quello legislativo (con l’emanazione della legge De Marzi-Cipolla nel 1971 sulla mitigazione dei canoni d’affitto dei fondi rustici, e con successive scelte politiche della Regione Sardegna) hanno notevolmente avvantaggiato gli allevatori, che anche ad Atzara detengono una salda presa sugli usi agrari dei suoli.
Ma a questo cospicuo presidio economico sul territorio detenuto dal comparto pastorale non corrisponde necessariamente più quel presidio ecologico che un tempo l’intera comunità rurale esercitava sul suo ecosistema di riferimento. Un presidio ecologico reso possibile una volta da quegli stessi rapporti di ricircolo della materia organica che si stabiliscono attraverso una varietà di interrelazioni tra piante, animali domestici e comunità umane, in una complessa rete di rapporti che supportavano la locale trama ecologica della vita e che ormai si sono di molto allentati e tendenzialmente dissolti.
In tempi di massimizzazione delle produzioni in funzione di esigenze di competitività commerciale, la pressione sull’ecosistema rurale esercitata da un allevamento specializzato, meccanizzato e strettamente integrato ai processi produttivi e distributivi  di matrice industriale non manca di esercitare effetti regressivi sulla situazione geopedologica e sul sistema locale della biodiversità. Ma nonostante tutto in questa zona si è ancora

in presenza di un’economia rurale diversificata. Questo fenomeno si è sviluppato principalmente perché qui l’attività pastorale non ha mai prevalso sulle altre produzioni agricole né in epoca di transumanza né in seguito. La popolazione locale ha sempre utilizzato il territorio in forma più autonoma rispetto alle zone alte che già a partire dall’inizio di questo secolo per ragioni ecologiche ed economiche hanno subìto un forte condizionamento verso la specializzazione zootecnica. Questo vale anche rispetto alle vallate del Campidano […] dove la monocoltura cerealicola aveva già da tempo delineato dei sistemi rurali fragili poiché dipendenti da interessi commerciali orientati all’esportazione. Questa autonomia locale (certamente non politica ma culturale) si è esplicitata attraverso un uso più diversificato delle risorse territoriali, che ancora oggi è possibile notare anche visivamente. […] Politiche inopportune  della PAC  [Politica Agricola Comunitaria] hanno disincentivato la viticoltura senza predisporre un piano di sviluppo rurale che tenesse conto della pluralità colturale espressa nel sistema produttivo rurale del Mandrolisai. L’allevamento ovino si è affermato quindi a svantaggio degli altri comparti produttivi. Le grandi estensioni di vigneti che hanno reso famoso il Mandrolisai insieme alle colture arboree dell’olivo e del mandorlo stanno quindi lasciando il posto a estensioni sempre più grandi di superfici coltivate a foraggio (MISSONI 1997, p. 27).

         Dal punto di vista della qualità ambientale il quadro territoriale  si presenta dunque controverso, ma nemmeno mancano elementi positivi che potrebbero essere valorizzati a patto di intraprendere nuove scelte politiche autenticamente favorevoli alla riqualificazione ecologica, sociale e culturale delle aree rurali dell’isola, e più in generale italiane (cfr. PARASCANDOLO, 2005). Nonostante tutto, il territorio locale potrebbe presentare ancora notevoli elementi di forza nella prospettiva di uno sviluppo  autosostenibile ed ecocompatibile (cfr. MAGNAGHI, 2000).

     

BIBLIOGRAFIA


Angius V., voce «Azzara o Atzara» = Casalis G., Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S. M. il re di Sardegna, Editrice Sardegna, Cagliari, 1988 [1833] (estratto delle voci riguardanti la provincia di Nuoro in edizione anastatica), pp. 47-51.
Bonu R., Ricerche storiche su tre paesi della Sardegna centrale (Sorgono, Ortueri, Atzara), Fossataro, Cagliari, 1975.
Le Lannou M., Pastori e contadini di Sardegna, Della Torre, Cagliari, 1976  [1939].
Magnaghi A., Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino, 2000.
Missoni F., Pastorizia e agricoltura in Sardegna: dalla monocoltura alla diversificazione , in “Semi ecc. Agricolture, territorio, risorse”, n.33-36, 1996/7 (ad Atzara sono dedicate le pp. 26-30).
         Muggianu  B. (a cura di), Meana Sardo e la Grande Trasformazione nel Novecento, AM&D, Cagliari, 2000.
 Parascandolo F., I caratteri territoriali della modernità nelle campagne sarde: un’interpretazione, in “Annali della Facoltà di Magistero dell’ Uni-versità di Cagliari”, Nuova Serie, vol. XVIII, 1995, pp. 139-186.
 Parascandolo F., Ussassai: struttura insediativa e relazioni ambientali in prospettiva storica, in “Quaderni bolotanesi”, anno XXX, n. 30, 2004, pp. 159-174.
 Parascandolo F., Sopravvivenze e potenzialità. L’esperienza della Sardegna, in “CNS – Ecologia Politica”, Quaderno n.1 (numero monografico su “Beni comuni tra tradizione e futuro”), gennaio 2005.
Polanyi K., La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino, (1974) [1944].


[1] Si fa qui riferimento al Progetto “Gente de ‘Idda”, realizzato nel 2006 a cura dell’Amministrazione    Comunale di Atzara sotto la supervisione della Regione Autonoma della Sardegna e in collaborazione con l'associazione Malik di Gavoi-NU. In questo saggio è riportata una versione abbreviata e riveduta della relazione presentata dallo scrivente nel quadro del suddetto Progetto.
NTE DE 'IDDA




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