Pubblichiamo un articolo di Fabio Parascandolo, autore di molti saggi e studi
sui temi delle terre comuni, in particolare in Sardegna. L'autore ha
partecipato il 9 giugno scorso all'incontro organizzato da Terrecomuni
Calabria.
Elementi
di storia ecologica della comunita’ di Atzara (NU) tra l’Ottocento e gli anni Settanta
del Novecento
di Fabio
Parascandolo
Bozza di
lavoro, corrispondente in parte al documento pubblicato col titolo “Agricoltura e vita comunitaria in un paese della Sardegna
(Sec. XIX-XX)”, in «I frutti di Demetra», n.
17, dicembre 2008, pp. 45-55.
Questo saggio tratteggia alcuni esiti
di una ricerca geostorica mirante a studiare la comunità atzarese dall’età
moderna sino ai giorni nostri[1],
ed è in particolar modo riferito al periodo indicato nel titolo. Si è tenuto conto
dei rapporti interconnessi fra la comunità locale e
il suo agroecosistema di riferimento per indagare sulle pratiche sociali
e sulle attività economiche che nel corso del tempo hanno permesso ai suoi
abitanti di sostentarsi e risiedere in quel territorio.
Il centro medio-piccolo di Atzara faceva
parte della regione storica del Mandra-e-Lisai (oggi Mandrolisai) e vi è
a tutt’oggi collocato a 540 metri slm.
L’acqua di cui rifornirsi in paese si trovava
in quattro fonti disposte a breve distanza dall’abitato, che è favorevolmente
situato a questo riguardo. Il compito di
prelevare l’acqua e portarla nelle case spettava alle donne dei nuclei
domestici.
Se
è vero che le viti e il vino rappresentavano per gli atzaresi un fondamentale
strumento per procurarsi del denaro, non si può però dire che nella loro
condizione tradizionale gli abitanti del villaggio si fossero integralmente
specializzati nella produzione vinicola: difatti in un’economia agricola di
sussistenza qual’era quella di cui ci stiamo occupando ogni elemento dell’agroecosistema e più in generale del territorio
rappresentava un fattore fondamentale
cui attingere ciclicamente per il soddisfacimento di tantissimi bisogni locali
dei nuclei familiari.
Fondamentale per la comunità locale era
la produzione e il consumo di cereali da cui ricavare le farine per vari tipi
di pani che costituivano la base dell’alimentazione. Anche per la
cerealicoltura estensiva il territorio comunale risultava favorevolmente strutturato, con abbondanza di
terreni adatti disposti in varie giaciture attorno all’abitato.
Piuttosto
che elencare sistematicamente altri frutti della terra o le loro trasformazioni
con cui si nutrivano o si difendevano dalle intemperie gli atzaresi (una
ricerca che noi abbiamo solo sfiorato e che andrebbe ripresa e approfondita),
illustreremo gli aspetti strutturali della loro economia premoderna:
Sebbene geograficamente, storicamente ed economicamente ben
differenziate tra loro, le economie agricole del passato erano generalmente
accomunate dalla necessità di mantenere un equilibrio ecologico a scala locale
tra la fertilità delle terre e l’intensità dei prelievi agro-silvo-pastorali.
L’applicazione di questo meccanismo regolativo era indispensabile per non
superare le capacità di carico degli ecosistemi agrari, e consentiva la
ricostituzione naturale delle risorse ambientali rinnovabili.
Anche dalla letteratura concernente i lineamenti storici delle
collettività rurali sarde si può evincere questo carattere di radicamento
ecologico delle comunità ai loro specifici ambienti di vita. Ogni collettività
fondava la sua riproduzione materiale su un sistema di prelievi diversificati
dei beni ambientali disponibili nel territorio di pertinenza comunitaria.
Questo era articolato in settori agrari distinti e circoscritti, conosciuti ed
utilizzati secondo specifiche tradizioni culturali. In queste economie di
sussistenza, vernacolari e localizzate, il rispetto dei vincoli ecologici
nell’attivazione delle risorse locali era indispensabile, pena la rarefazione
di alimenti ed altri beni necessari alla vita comunitaria. Come regola
generale, i modelli di responsabilità collettiva nella gestione delle risorse
assumevano una funzione regolatrice nei confronti degli interessi particolari
presenti nelle comunità. Le tendenze privatistiche e competitive dovevano
conciliarsi con l’irriducibile necessità di cooperare per il bene comune di ciascuna società locale.
Scendendo un po’ più in dettaglio, indicheremo alcuni aspetti essenziali
del sistema economico premoderno. i quali gradualmente sbiadiscono fino ad
estinguersi al seguito delle riforme giuridiche del secolo XIX. Data una
comunità-tipo, essi consistono:
1) Nel governo comunitario dei tempi, degli spazi e dei modi di prelievo
e trasformazione dei beni ambientali, fondato in buona parte su forme non
privatistiche di accesso alla terra (possesso collettivo). La sussistenza si
realizza primariamente in rapporto al territorio utilizzato dalla società
locale mediante i suoi specifici dispositivi agrari: rotazioni colturali
obbligatorie, compascuo, usi civici dei boschi, ecc.
2) Nella pressocché completa autosufficienza locale sotto il profilo
alimentare ed energetico. Questa però è raggiunta solo alla scala dell’intera
collettività rurale, e si basa sull’interdipendenza
delle famiglie componenti la comunità, le quali non sono mai del tutto autonome
se prese singolarmente. I circuiti di reciprocità parentale e vicinale (doni in
natura e prestazioni di servizi) e le specializzazioni produttive
infra-comunitarie (mai accentuate come quelle moderne, tuttavia) consentono il
conseguimento dell’autosufficienza collettiva.
3) Nell’acquisto di ciò che non può essere ottenuto con le forme di
autoconsumo e reciprocità interne alla collettività locale. Questo avviene
soprattutto durante particolari occasioni di incontro inter-comunitario (sagre,
feste, mercati, ecc.). Sono così vantaggiosamente canalizzati gli scambi di
produzioni particolari (artigianato locale specializzato), come di eventuali
sovrapproduzioni e produzioni agrarie prevalenti di ciascuna collettività.
Sicuramente il maggior carattere distintivo di queste società
tradizionali (e di quelle precapitalistiche in genere) è che in esse le transazioni economiche sono incorporate
nelle relazioni sociali. (PARASCANDOLO, 1995, pp. 161-162).
Per tutto il XIX secolo ad Atzara fu
dunque praticata una agricoltura contadina di sussistenza, indispensabile al
sostentamento alimentare e funzionale alla riproduzione della vita materiale e
simbolica della popolazione locale. Vi si provvedeva mediante molteplici
pratiche, sovente multifunzionali (ad esempio: dalla trebbiatura delle spighe
di frumento si ottenevano al contempo il raccolto in grano per l’alimentazione
umana e la paglia usata sia per il
bestiame che per la fabbricazione dei mattoni di terra cruda impiegati nell’edilizia
locale). Ciò che non era prodotto in loco o era insufficiente a causa di
limitazioni naturali o climatiche veniva ottenuto mediante circuiti di scambio
in natura con i villaggi più o meno vicini. E’ questo il caso del lino che
veniva filato e tessuto dalle donne in gran quantità in tutte le case in quanto
materia base per il confezionamento di vestiti e sacchi, e che tuttavia
proveniva da Samugheo o Busachi, dove le condizioni ambientali per la sua
lavorazione erano migliori. Lo stesso valeva per prodotti alimentari o
manifatturieri di zone vicine poste a
mggiore altitudine: patate o castagne da Desulo, nocciole da Tonara, ecc. Gli scambi avvenivano attraverso forme
di commercio non necessariamente professionale, ambulante o anche con bestie da
soma, che si svolgeva da e verso centri vicini. Ad esempio, una informatrice
novantenne ci ha detto che per anni si recava periodicamente a Desulo con
l’asino portandovi pane ‘e sapa e fichi
d’india e ritornandone con patate. Le produzioni di zone più basse e lontane,
come le arance dei Campidani, erano tendenzialmente disponibili in occasioni
speciali: per esempio alla fiera di S. Mauro, che si svolgeva a maggio.
Queste attività agricole “arcaiche” e
queste pratiche economiche autocentrate non erano però viste di buon occhio
dalle classi dirigenti che risiedevano nei centri urbani, e questo per la semplice ma sostanziosa ragione
che esse non erano orientate alla massimizzazione della circolazione e
dell’accumulo del denaro. Essendo fondamentalmente orientata all’autoconsumo, l’
agricoltura tradizionale comportava la vendita del solo surplus dei raccolti, e solo quando le annate favorevoli lo
consentivano. Le derrate prodotte con l’esercizio di agricoltura e pastorizia
così come i prodotti selvatici dovuti a caccia e raccolta venivano tra loro scambiati in natura, cioè barattati, a mezzo di
equivalenze consuetudinarie (per esempio: 1 litro di latte di pecora = 1 litro
di vino = 1 litro di grano, oppure 10 litri di grano = 2 kg di formaggio = un
agnello). Anche le paghe per tutti i tipi di lavori eseguiti erano generalmente
corrisposte in natura. Si trattava quindi di pratiche economiche non tassabili e
che sfuggivano ad ogni regola organizzativa dell’economia formale di mercato.
Va infine detto che allo scopo di costituire
una moderna agricoltura funzionale all’incremento degli scambi commerciali a
largo raggio (sia nazionali che internazionali), le classi dirigenti
avversavano profondamente il regime agrario consuetudinario di possesso o
comunque di uso collettivo della terra che ancora predominava nell’isola, anche
se in forma non certo esclusiva. Dal fatidico editto delle chiudende del 1820
in avanti, le loro riforme puntarono alla diffusione della sola proprietà
privata della terra, cioè a forme di proprietà
perfetta (rigorosamente individualizzata e trasmissibile senza vincoli), la sola integralmente funzionale al pieno dispiegamento
di un’economia di mercato “libera” e
generalizzata. Secondo i nuovi intendimenti borghesi
che gradualmente andarono imponendosi fino a diventare egemonici, la terra non
andava più considerata come base della sussistenza e come tale legata a istanze di tutela patrimoniale da parte delle
popolazioni locali che la facevano fruttare curando le possibilità di rigenerazione
dei suoi molteplici frutti. Essa veniva ridotta a pura merce e fattore di produzione,
da attivare nei circuiti mercantili a fini di massimizzazione degli utili
derivanti dagli investimenti economici.
In questo senso va ricordata la favorevole situazione
geopedologica del territorio atzarese, più favorevole all’esercizio di
un’agricoltura “produttivistica” rispetto ad altre zone alto-collinari e
montane della Sardegna, che presentavano minori possibilità di ricavare utili
consistenti dallo sfruttamento di appezzamenti adatti. Sicuramente l’influsso
esercitato fin dal Medio Evo sugli abitanti locali dalla coltivazione della
vite nel vicino complesso religioso di San Mauro (costruito intorno al 1100 da monaci Benedettini) aveva fatto
prendere presto piede la tendenza al possesso
in forma privata dei campi, e anche se ci mancano dati più precisi
possiamo rilevare la netta prevalenza di terreni privati già nella relativa Carta
del Real Corpo di Stato Maggiore Generale (detta Carta de Candia e
redatta per Atzara entro il 1847).
Lo stesso Angius (1988, p. 49) offre
già per gli anni ’30 dell’800 una chiara e significativa testimonianza della
vocazione vitivinicola del territorio atzarese, in un passo che merita di essere
riportato:
[…] l’attenzione [del
colono azzarese] è rivolta principalmente alle vigne, che egli reputa il più
importante capo delle sue risorse. Le uve quasi tutte sono nere: non si sa se
il vino sia tanto buono, quanto si vanta; ma è certo che grandissima è la sua
quantità, la quale non solo basta al consumo prodigioso, che se ne fa per il
paese, ma ancora a provvedere ai villaggi circonvicini, Dèsulo, Belvì, Aritzo,
Tonara, Ortuèri, Samughèo, Busàchi, Allài, Fordongiànos, ed a molti altri
villaggi del Marghine e del Campidano, nei quali luoghi non occorre festa, in
cui non vadano cinque o più azzaresi con altrettante botti di vino […].
Anche se il
grosso della terra pascolativa e arabile non era posseduta collettivamente
dagli atzaresi come avveniva in altre parti dell’isola, almeno due importanti
forme di governo comunitario del territorio permasero comunque fino all’avvento
del XX secolo:
1) L’alternanza
vidazzone/paberile, ovvero la decisione vincolante del consiglio
comunitativo su quali terreni destinare alla cerealicoltura (di orzo e grano) e
quali lasciare a riposo o destinare alla coltivazione di leguminose o
eventualmente al pascolo del bestiame rude. Sull’importanza del controllo
collettivo delle pratiche economiche locali è significativa questa
testimonianza di un contadino novantenne: -Un
tempo neanche vendemmiare si poteva senza che il comune desse il bando.
2) Un’area di
densa foresta di più di 200 ha, denominata monte
di Crecchi Giassu. E’ l’unica
regione del territorio comunale di aspetto
decisamente montano, ed apparteneva integralmente al Comune perché gli
abitanti vi esercitassero i diritti di prelievo della legna e altri prodotti
naturali.
Il
periodo di passaggio tra Otto e Novecento dovette risultare economicamente molto
duro per la gran parte degli Atzaresi. Infatti l’ultimo tratto del secolo XIX
fu quella in cui sia il contesto economico generale che le disposizioni
legislative emanate dai Governi centrali italiani determinarono pesanti
inasprimenti fiscali che furono effettuati anche nei confronti dei proprietari
di terreni, per quanto piccoli essi fossero. Per quelli che non potevano pagare
sa natìa (presumibile sardizzazione
di “donativo”), ovvero i tributi in
denaro dovuti allo Stato per il possesso di bestiame, fabbricati e terreni,
la soluzione era inflessibile: requisizioni e pignoramenti. In particolare si
poteva subire dalla Pretura l’espropriazione di fondi per debito d’imposta, con
la loro successiva vendita all’incanto in aste pubbliche. Non abbiamo dati certi,
ma alcune interviste effettuate ci hanno lasciato intendere che in questo periodo
si produsse rispetto al passato una marcata concentrazione fondiaria, con la
conseguente polarizzazione delle fortune disponibili. Poche famiglie di
notabili emergenti poterono acquisire un cospicuo patrimonio terriero, in parte
a spese di altri soggetti che perdendo i terreni cadevano in disgrazia, col
risultato di andare ad ingrossare le fila del locale “proletariato” rurale. A
quei tempi le famiglie più sfavorite vivevano strettamente ai limiti della
sussistenza, e i loro membri erano continuamente costretti a mettersi al
servizio dei proprietarios per procurarsi il necessario di che vivere
per sé e per i figli.
Con la Grande Guerra (1915-1918)
e in parte con le Campagne d’Africa che
furono intraprese in seguito dal regime fascista, la gioventù maschile atzarese
cominciò a “conoscere il mondo” e il microcosmo umano “statico” e per molti
versi chiuso su se stesso del paese iniziò ad essere attraversato da nuovi
modelli culturali e sociali. Vi furono anche emigrazioni infraregionali verso
zone industriali in crescita (in particolare l’area mineraria di Carbonia),
dove le prospettive di reddito si presentavano migliori. Ma per quelli che restavano,
i prodotti della terra restavano fondamentali nel fornire opportunità di lavoro
e vita.
Nel periodo compreso tra le due guerre
mondiali e anche oltre, fino a quando un complesso di cambiamenti politici,
economici e tecnologici non li scardinarono definitivamente, gli assetti
sociali di questa come di tante altre località rurali della Sardegna si
articolavano attorno a tre tipi di figure di base:
1) In cima alla scala sociale locale
stavano le poche famiglie (non più di una trentina) di grandi o medio-grandi
proprietari che detenevano il grosso del bene strategico costituito dalla terra.
Questi lo cedevano a pastori o contadini che la mettevano a frutto in cambio di
una parte pattuita delle produzioni agrarie annuali (per esempio
con contratti agrari di tipo mezzadrile come quello di mes’a pari). Erano per l’appunto queste le
famiglie che organizzavano la locale produzione del vino commerciabile, potendo
esse permettersi una produzione vinicola di gran lunga superiore al fabbisogno interno.
2) Seguivano in ordine di status
decrescente le famiglie di coloro che sulla base di periodici e revocabili accordi
con i maggiori proprietari terrieri provvedevano direttamente alla produzione delle
risorse agricole di base. Innanzitutto una trentina circa di famiglie di pastori
specializzati, proprietari di bestiame ma non necessariamente di terre, poi un numero
maggiore di contadini (circa un centinaio famiglie) che possedevano meno terra
di quanta potessero coltivarne e svolgevano il ruolo di compartecipanti (gli
affittuari o coloni erano rari a quei tempi) dei maggiorenti. Vi era poi era un cospicuo numero (forse poco più di un
centinaio) di famiglie senza terreni i
cui componenti atti al lavoro, sia maschi che femmine, potevano essere definiti
braccianti itineranti (seguendo Le
Lannou, 1976, pp. 202-206 e p. 205 in particolare).
Tutti questi soggetti potevano essere
economicamente gerarchizzati in base a un fattore decisivo per l’economia
domestica tradizionale: il possesso o la mancanza di almeno un giogo di buoi (vi erano in paese oltre
cento capi di buoi da lavoro negli anni ’30-’40), indispensabili all’aratura delle
vigne e dei seminativi, oltre che necessari ai trasporti in genere. Il loro possesso
consentiva condizioni di vita meno precarie: il lavoro prestato alla loro guida
era meglio retribuito che per i semplici braccianti, la cui paga media negli
anni ’30 era particolarmente bassa: una
miaggia (misura), ossia 5 litri di grano per ogni giornata di lavoro di
8-10 ore.
3) Vi era infine una varietà di figure
sociali non direttamente legate alla produzione agricola ma ad altri servizi ad
essa più o meno collegati: artigiani, addetti al commercio o impiegati nella
pubblica amministrazione.
Per delineare i nuovi processi
socioeconomici che vanno determinandosi dalla fine della seconda guerra
mondiale in Atzara come in tutta la Sardegna rurale, faremo riferimento a
quanto già sostenuto in un altro nostro studio dedicato a una comunità della
Barbagia di Seulo (PARASCANDOLO, 2004, pp. 168-170):
Fino ai primi anni del secondo dopoguerra le comunità di villaggio sarde
riuscivano ancora, sia pur tra tante avversità, a gestire i loro mezzi
produttivi e riproduttivi, cioè i loro specifici patrimoni culturali ed
agroecologici: architettura ed urbanistica popolare, biodiversità del genoma
agrario locale (varietà delle razze animali e cultivar vegetali),
produzioni artigianali, ecc. I contadini in particolare impiegavano ancora il
loro “arretrato” -eppure ecologicamente compatibile- saper fare, pur ottenendo rese derisorie rispetto a quelle agroindustriali.
Senonché, i saperi e le risorse tradizionali risultavano completamente inadatti
ai nuovi contesti politico-economici che andavano affermandosi, e la loro già
precaria tenuta si sarebbe dissolta con l’irruzione delle nuove condizioni
strutturali imposte dal mercato mondiale.
Con la nascita del Mercato Comune Europeo alla fine degli anni ’50, la
politica economica nazionale completa il suo passaggio ad un nuovo stadio
evolutivo in cui si modificano definitivamente i rapporti sociali basati
sull’ormai superato ruralismo fascista. Nel panorama economico italiano
susseguente alle ricostruzioni del Piano Marshall si profilava il crescente
abbandono del protezionismo doganale ed una rilevante apertura commerciale ai
paesi del blocco politico occidentale. Sulla base delle nuove opportunità
commerciali, la Sardegna non sarà più
solo regione d’esportazione di derrate agricole -il che già avveniva da secoli-
ma anche di incrementata importazione
delle stesse. E così l’offerta sul mercato regionale di cereali prodotti
all’estero a mezzo di avanzate tecnologie agroindustriali e l’impossibilità di
produrne a prezzi competitivi nei contesti aziendali tradizionali faranno
saltare definitivamente i già precari bilanci economici dei ceti rurali
inferiori.
[…] Se per provvedere al sostentamento di singoli e famiglie occorre
emigrare o comunque cercare altrove
le fonti di reddito -per esempio spostandosi pendolarmente in centri urbani più
o meno vicini- questo vuol dire che il territorio
comunale è stato espropriato della sua millenaria funzione di fondamento economico della collettività. Se l’accesso alle
risorse vitali non passa più o passa solo in forma parziale e subordinata per
l’attivazione delle risorse e dei saperi locali collettivamente prodotti e
tramandati, ciò vuol dire che esso ha
subìto un fatidico passaggio di scala: è
ormai nei reticoli di attività economiche rese disponibili nell’ambito
dell’ordine sociale inglobante (e quindi
dei suoi saperi e delle sue istituzioni formali) che bisogna cercare i canali
di acquisizione della sussistenza, ormai consumisticamente intesa come
“benessere” (ovvero ben-avere)
individuale- familiare.
Quindi
possiamo dire che nel secondo dopoguerra e oltre, soprattutto dagli anni ‘60, anche
a causa del mutato assetto geopolitico ed economico dell’Europa occidentale, i
processi di modernizzazione produttiva e di internazionalizzazione commerciale
già da tempo avviati in agricoltura presero uno slancio tale che le pratiche agrarie
e agricole ne risultarono profondamente trasformate. Negli anni in cui si
verificava il cosiddetto miracolo
economico italiano l’agricoltura venne presa in considerazione dalle classe
dirigenti nazionali e regionali solo nella misura in cui poteva sottostare alle
regole della intensificazione e standardizzazione industriale delle produzioni.
Ma l’introduzione delle innovazioni tecniche ed economiche fece crollare la
redditività dei prodotti agricoli, e solo i grandi proprietari terrieri avevano
i mezzi per non soccombere nella nuova situazione economica; chiunque potesse, cambiava
al più presto lavoro, preferendo di gran lunga impieghi nell’industria o nei
servizi, ovunque si trovassero. Dopo la pausa del fascismo e della seconda
guerra mondiale, le emigrazioni di sardi verso le aree industriali estere e ora
soprattutto italiane avevano difatti ripreso grande vigore, e anche la comunità
atzarese fu vistosamente interessata dal fenomeno. Da allora è iniziata in paese una fase di
massiccio declino demografico.
L’abbandono
delle ultime aie alla fine degli anni ’70 e la graduale cessazione della
produzione del grano a fini di autoconsumo segna uno dei più evidenti
discrimini tra due periodi ben distinti.
Se già negli anni Trenta nei negozi locali si poteva trovare su pane a ‘endere ma le donne atzaresi
continuavano comunque a farlo abitualmente da loro, spesso con loro farina o
comunque con farina locale, dopo gli anni Settanta nella grandissima parte dei
nuclei domestici la situazione si è ormai invertita. Anche se c’è chi fa almeno
i dolci in casa, di norma il pane che le famiglie locali mangiano viene
comprato, e la farina con cui esso viene prodotto proviene prevalentemente da
sistemi agroindustiali e circuiti commerciali transnazionali.
Ai nostri giorni e sin dagli anni ’80 non è più possibile parlare di comunità tradizionale, e basta un dato per convincersene: Al 1981 il Censimento generale della popolazione
dell’ISTAT suddivide la popolazione residente attiva per ramo di attività
economica in 119 addetti all’agricoltura, 141 all’industria e 140 ai servizi.
Il ruolo dell’agricoltura e quindi delle pratiche di attivazione delle risorse
ecologiche locali nella formazione del reddito e più in generale nel
modellamento della vita sociale del paese è ormai minoritario rispetto ai
restanti settori economici. La crescente modernizzazione del modo di vita
locale ha quindi comportato un diffuso sganciamento
ecologico (anche se non necessariamente affettivo) degli abitanti, e specie
delle generazioni più giovani, da loro contesto ambientale di riferimento.
Anche ad Atzara, come in tutta la
Sardegna del resto, moltissime tipologie autoctone di autoproduzione e
autoconsumo agro-artigianale di alimenti e manufatti di uso comune così come di
autocostruzione edilizia sono state ampiamente destrutturate dal contesto
socio-economico ed istituzionale (MEC-CEE-UE) evolutosi dal secondo dopoguerra.
Le massicce trasformazioni non riguardano d’altronde il solo ambiente coltivato
ma anche quello costruito: tra gli anni Sessanta e i Settanta e oltre fino ad
oggi il paese cambierà aspetto, modernizzandosi ampiamente nella struttura
urbana e nelle dotazioni di servizi per le abitazioni. E difatti proprio
l’edilizia (e in particolare le specializzazioni settoriali nella messa in
opera di intonaci oppure di piastrelle)
è divenuto il settore economico trainante del paese negli ultimi tempi.
Se
nella vita economica di Atzara le attività agricole sono diventate funzionali
ai sistemi commerciali e industriali, non per questo le campagne sono state abbandonate
in senso stretto, anzi… Sia le condizioni strutturali del comparto agricolo
nell’isola (maggiore remuneratività delle produzioni animali rispetto a quelle vegetali) che quello legislativo (con
l’emanazione della legge De Marzi-Cipolla nel 1971 sulla mitigazione dei canoni
d’affitto dei fondi rustici, e con successive scelte politiche della Regione
Sardegna) hanno notevolmente avvantaggiato gli allevatori, che anche ad Atzara
detengono una salda presa sugli usi agrari dei suoli.
Ma
a questo cospicuo presidio economico sul territorio detenuto dal
comparto pastorale non corrisponde necessariamente più quel presidio ecologico che un tempo l’intera
comunità rurale esercitava sul suo ecosistema di riferimento. Un presidio ecologico
reso possibile una volta da quegli stessi rapporti di ricircolo della materia
organica che si stabiliscono attraverso una varietà di interrelazioni tra
piante, animali domestici e comunità umane, in una complessa rete di rapporti che
supportavano la locale trama ecologica della vita e che ormai si sono di molto
allentati e tendenzialmente dissolti.
In
tempi di massimizzazione delle produzioni in funzione di esigenze di
competitività commerciale, la pressione sull’ecosistema rurale esercitata da un
allevamento specializzato, meccanizzato e strettamente integrato ai processi
produttivi e distributivi di matrice
industriale non manca di esercitare effetti regressivi sulla situazione geopedologica
e sul sistema locale della biodiversità. Ma nonostante tutto in questa zona si
è ancora
in presenza di un’economia rurale diversificata. Questo
fenomeno si è sviluppato principalmente perché qui l’attività pastorale non ha
mai prevalso sulle altre produzioni agricole né in epoca di transumanza né in
seguito. La popolazione locale ha sempre utilizzato il territorio in forma più
autonoma rispetto alle zone alte che già a partire dall’inizio di questo secolo
per ragioni ecologiche ed economiche hanno subìto un forte condizionamento
verso la specializzazione zootecnica. Questo vale anche rispetto alle vallate
del Campidano […] dove la monocoltura cerealicola aveva già da tempo delineato
dei sistemi rurali fragili poiché dipendenti da interessi commerciali orientati
all’esportazione. Questa autonomia locale (certamente non politica ma culturale)
si è esplicitata attraverso un uso più diversificato delle risorse
territoriali, che ancora oggi è possibile notare anche visivamente. […]
Politiche inopportune della PAC [Politica Agricola Comunitaria] hanno
disincentivato la viticoltura senza predisporre un piano di sviluppo rurale che
tenesse conto della pluralità colturale espressa nel sistema produttivo rurale
del Mandrolisai. L’allevamento ovino si è affermato quindi a svantaggio degli
altri comparti produttivi. Le grandi estensioni di vigneti che hanno reso
famoso il Mandrolisai insieme alle colture arboree dell’olivo e del mandorlo
stanno quindi lasciando il posto a estensioni sempre più grandi di superfici
coltivate a foraggio (MISSONI 1997, p. 27).
Dal
punto di vista della qualità ambientale il quadro territoriale si presenta dunque controverso, ma nemmeno
mancano elementi positivi che potrebbero essere valorizzati a patto di
intraprendere nuove scelte politiche autenticamente favorevoli alla
riqualificazione ecologica, sociale e culturale delle aree rurali dell’isola, e
più in generale italiane (cfr. PARASCANDOLO, 2005). Nonostante tutto, il
territorio locale potrebbe presentare ancora notevoli elementi di forza nella
prospettiva di uno sviluppo autosostenibile
ed ecocompatibile (cfr. MAGNAGHI, 2000).
BIBLIOGRAFIA
Angius V., voce «Azzara o Atzara» = Casalis G., Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli Stati di S.
M. il re di Sardegna, Editrice Sardegna, Cagliari, 1988 [1833] (estratto
delle voci riguardanti la provincia di Nuoro in edizione anastatica), pp. 47-51.
Bonu R., Ricerche storiche su tre paesi della
Sardegna centrale (Sorgono, Ortueri, Atzara), Fossataro, Cagliari, 1975.
Le Lannou M., Pastori e contadini di Sardegna, Della
Torre, Cagliari, 1976 [1939].
Magnaghi A., Il
progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino, 2000.
Missoni F., Pastorizia e agricoltura in Sardegna: dalla
monocoltura alla diversificazione , in “Semi ecc. Agricolture, territorio,
risorse”, n.33-36, 1996/7 (ad Atzara sono dedicate le pp. 26-30).
Muggianu
B. (a cura di), Meana Sardo e la
Grande Trasformazione nel Novecento, AM&D, Cagliari, 2000.
Parascandolo F., I caratteri territoriali della modernità nelle campagne sarde:
un’interpretazione, in “Annali della Facoltà di Magistero dell’ Uni-versità
di Cagliari”, Nuova Serie, vol. XVIII, 1995, pp. 139-186.
Parascandolo F., Ussassai: struttura insediativa e relazioni
ambientali in prospettiva storica, in “Quaderni bolotanesi”, anno XXX, n.
30, 2004, pp. 159-174.
Parascandolo
F., Sopravvivenze e potenzialità.
L’esperienza della Sardegna, in “CNS – Ecologia Politica”, Quaderno n.1
(numero monografico su “Beni comuni tra tradizione e futuro”), gennaio 2005.
Polanyi K., La grande
trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca,
Einaudi, Torino, (1974) [1944].
[1] Si fa qui riferimento al Progetto “Gente de ‘Idda”,
realizzato nel 2006 a cura dell’Amministrazione Comunale di Atzara sotto la supervisione
della Regione Autonoma della Sardegna e in collaborazione con l'associazione
Malik di Gavoi-NU. In questo saggio è riportata una versione abbreviata e
riveduta della relazione presentata dallo scrivente nel quadro del suddetto Progetto.
NTE
DE 'IDDA
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