Fin dal primo decreto di agosto del
2001 il governo ha individuato nell’alienazione o privatizzazione
di beni pubblici una delle misure per contenere il debito in
prospettiva della irraggiungibile “crescita”. Dal canto loro gli
enti locali ormai senza più un euro in cassa pensano a coprire più
di una voce di bilancio vendendo pezzi di demanio o qualche bene
pubblico. Una prospettiva sollecitata anche con vigore da qualche
sindacalista: “Perché invece di ridurre le pensioni non si
liquidano le proprietà pubbliche?”
E’ possibile decidere la vendita di
questi beni comuni come se si trattasse di una merce come un’altra?
Indipendentemente che coloro che abitano i luoghi ove questi beni si
trovano siano chiamati ad esprimersi? E quali conseguenze questo
comporta per il benessere dei cittadini?
Chi propone l’alienazione dei beni
pubblici ha una visione del territorio come “contenitore” di
risorse da sfruttare per fini che nulla hanno a che fare con
l’esistenza di chi quel territorio lo abita. Una tale concezione
non può che determinarne l’esaurimento quando sarà invocato il
“risanamento” anch’esso mercificato e occasione di profitti.
D’altra parte quanto è avvenuto e sta avvenendo rispetto al
territorio è quanto è avvenuto e sta avvenendo per tutti gli
aspetti della nostra vita materiale biologica: dalla salute, al cibo,
al sapere, alla circolazione. E’ la stessa vita biologica che è
entrata nel ciclo del capitalismo finanziario.
Riproporre l’attenzione verso il
territorio non ha quindi nulla di nuovo e originale. Il territorio è
definito dalla sguardo che su di esso si posa. Così può essere un
campo da seminare una vigna da curare quindi percepito come terreno,
suolo; può essere una distesa di ulivi che degrada verso il blu del
mare quindi percepito come paesaggio; può essere la piazza del borgo
incrocio delle diverse attività quindi percepito come luogo; può
essere quel che resta di un insediamento dell’età classica e
quindi percepito come sito archeologico; e infinite altre forme con
cui si entra in relazione con il territorio.
Nelle sue diverse angolature è’
stato ed oggetto di studi e riflessioni ormai da molti anni e in
tutto il mondo.
Ma nuovo è fatto che l’attenzione verso il
territorio sia un sentire comune largamente diffuso ed è all’origine
di un nuova stagione di protagonismo sociale, di un rinnovato
rapporto con i luoghi dell’abitare e dell’esercizio di forme di
partecipazione. Le esperienze in Italia sono ormai innumerevoli (dal
Movimento No Tav alla rivolta a Scansano contro il deposito di scorie
radioattive, dal No Dal Molin al No Ponte) tanto che è ormai
impossibile classificarle come grette, egoistiche reazionarie
espressioni di quell’atteggiamento definito come NIMBY (Not in My
Backyard). Esperienze ricche, estranee ai costrutti
politici-istituzionali, nelle quali si ritrovano cittadini che non
hanno mai svolto attività politica; ma anche esperti le cui
competenze mettono in grado le comunità di demolire gli assunti
tecnico-scientifici grazie ai quali si sono state giustificate certe
scelte.
Non si tratta solo di forme di
resistenza rispetto a scelte compiute contro la volontà dei
cittadini. Ci sono infatti in positivo tante esperienze che si
fondano su un diverso rapporto col territorio (Gruppi di acquisto
solidali, filiere corte, cooperative sociali, orti sociali ecc.)
tanto che ormai “esiste una contrapposizione fra un senso comune
consolidato che vede ancora il territorio come variabile dipendente
dello sviluppo economico e un senso comune basato sul riconoscimento
dell’identità e dei diritti del territorio” (Paolo Baldeschi).
Queste stesse esperienze e le
riflessioni di tanti studiosi rendono possibile oggi di ripensare il
territorio come “frutto di processi coevolutivi di lunga durata fra
civilizzazione antropica e ambiente, è un immane deposito di
sedimenti materiali e cognitivi, un’opera edificata col lavoro di
domesticazione e fecondazione della natura, “oggettivato” in
paesaggi, culture saperi che si configurano come patrimonio
collettivo, dunque “beni comuni” per eccellenza” (Alberto
Magnaghi).
D’altronde ripensare il territorio
come patrimonio collettivo è necessario alla luce di due fattori che
caratterizzano la situazione presente. Da un lato la “crisi
esponenziale degli equilibri ambientali entro i quali si sono
sedimentate in sequenza storica, la narrazione del progresso e di
sviluppo fondate entrambe sulla crescita economica illimitata e sulla
tecno scienza”; dall’altra la crisi economica finanziaria “che
ha messo in causa le variabili strutturali della crescita economica
globale in quanto fattore produttore di ricchezza”.
Tutto questo è vero anche in Calabria
dove ormai da diversi anni si vanno sviluppando esperienze
partecipative che designano inequivocabilmente una nuova (o una
ritrovata) attenzione verso il territorio.
Vale per i movimenti contro la
realizzazione di strutture per la produzione di energia o contro
mega-infrastrutture e insieme la ritrovata sensibilità verso la
produzione di alimenti in un ambito territoriale definito e la
costruzione di filiere corte, l’attenzione a frutti, piante e
sementi destinati all’estinzione. (dal Comitato per la difesa della
Calabria Franco Nisticò, al comitato no carbone Saline Joniche, dal
Forum Stefano Gioia di contro la centrale del Mercureal Comitato
civico Natale De Grazia di Amantea; dai gruppi di acquisto solidali
ormai presenti in tutta la Regione alla crescita di attività
agricole legate al mercato locale come l’esperienza della
Coldiretti).
Questa nuova attenzione ha in Calabria
la specificità del rapporto che i suoi abitanti hanno avuto con il
loro territorio (o meglio i loro territori). Si può, semplificando
molto, affermare che i calabresi in questi ultimi decenni sono stati
forse i suoi peggiori nemici (e i politici locali li hanno saputi ben
rappresentare). Certo hanno avuto buone ragioni per odiare e
dimenticare questa terra, dura da lavorare, sulla quale si è
“buttato il sangue”. Ma perso il rapporto con il territorio si è
perso anche il riferimento collettivo alla comunità e i luoghi sono
diventati di conseguenza opportunità da sfruttare più o meno
legalmente. Le conseguenze sono sotto i nostri occhi.
Porre al centro il territorio come
patrimonio, bene comune proprio delle comunità che lo abitano,
significa prima di tutto fare i conti con gli eventi, la storia che
li hanno definiti in quanto tali. E in Calabria questa storia vive
ancora nel nome dei luoghi nei suoi assetti, nelle sue
caratteristiche colturali, nel paesaggio. E’ la storia secolare
delle comunità la cui sopravvivenza era fondata sugli usi civici e
le disponibilità delle terre demaniali. Le comunità, proprio perché
quei luoghi che abitavano fornivano le risorse necessarie alla
sopravvivenza, di quei luoghi avevano cura attraverso l’attenzione
al sottobosco, la costruzione di terrazzamenti, il drenaggio delle
acque. Attività dense nel loro svolgimento di una sapienza sociale
accumulata per secoli.
Ritrovare la centralità dei territori
significa prima di tutto ricostruire quella storia. E questo comporta
anche costruire una mappa degli usi civici e delle terre demaniali.
Ricostruire le loro vicende, i passaggi decisivi (per esempio le
leggi eversive della feudalità) e non ultimo definire la situazione
attuale. A oltre settant’anni dalla legge (del 1927) che avrebbe
dovuto definire la questione degli usi civici e delle terre demaniali
in Calabria non esiste nessuna mappatura. Molte sono le aree e i
terreni di recente usurpazione (basti per tutte la vicenda delle
coste della regione). La legge regionale del 2007 - il cui scopo più
o meno esplicito era quello di una”sanatoria” di tutti gli scempi
compiuti - che avrebbe dovuto definire lo stato giuridico di tanta
parte del territorio non è mai stata attuata.
Oggi la questione torna di prepotente
attualità proprio perché le istituzioni nazionali e locali hanno
individuato in questi beni le ragioni di far cassa.
Il Convegno vuole essere un’occasione
per riproporre, proprio in un periodo in cui emerge l’insostenibilità
di dell’attuale modello di sviluppo, una nuova centralità del
territorio di cui devono essere protagoniste le comunità locali, gli
amministratori locali, studiosi ed esperti. Nel Convegno potrebbe
essere definita una sorta di Carta di principi per la salvaguardia e
la cura del territorio in Calabria
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