giovedì 2 febbraio 2012

Perchè un convegno sui beni comuni e gli usi civici?


Fin dal primo decreto di agosto del 2001 il governo ha individuato nell’alienazione o privatizzazione di beni pubblici una delle misure per contenere il debito in prospettiva della irraggiungibile “crescita”. Dal canto loro gli enti locali ormai senza più un euro in cassa pensano a coprire più di una voce di bilancio vendendo pezzi di demanio o qualche bene pubblico. Una prospettiva sollecitata anche con vigore da qualche sindacalista: “Perché invece di ridurre le pensioni non si liquidano le proprietà pubbliche?”
E’ possibile decidere la vendita di questi beni comuni come se si trattasse di una merce come un’altra? Indipendentemente che coloro che abitano i luoghi ove questi beni si trovano siano chiamati ad esprimersi? E quali conseguenze questo comporta per il benessere dei cittadini?
Chi propone l’alienazione dei beni pubblici ha una visione del territorio come “contenitore” di risorse da sfruttare per fini che nulla hanno a che fare con l’esistenza di chi quel territorio lo abita. Una tale concezione non può che determinarne l’esaurimento quando sarà invocato il “risanamento” anch’esso mercificato e occasione di profitti. D’altra parte quanto è avvenuto e sta avvenendo rispetto al territorio è quanto è avvenuto e sta avvenendo per tutti gli aspetti della nostra vita materiale biologica: dalla salute, al cibo, al sapere, alla circolazione. E’ la stessa vita biologica che è entrata nel ciclo del capitalismo finanziario.
Riproporre l’attenzione verso il territorio non ha quindi nulla di nuovo e originale. Il territorio è definito dalla sguardo che su di esso si posa. Così può essere un campo da seminare una vigna da curare quindi percepito come terreno, suolo; può essere una distesa di ulivi che degrada verso il blu del mare quindi percepito come paesaggio; può essere la piazza del borgo incrocio delle diverse attività quindi percepito come luogo; può essere quel che resta di un insediamento dell’età classica e quindi percepito come sito archeologico; e infinite altre forme con cui si entra in relazione con il territorio.
Nelle sue diverse angolature è’ stato ed oggetto di studi e riflessioni ormai da molti anni e in tutto il mondo. 


Ma nuovo è fatto che l’attenzione verso il territorio sia un sentire comune largamente diffuso ed è all’origine di un nuova stagione di protagonismo sociale, di un rinnovato rapporto con i luoghi dell’abitare e dell’esercizio di forme di partecipazione. Le esperienze in Italia sono ormai innumerevoli (dal Movimento No Tav alla rivolta a Scansano contro il deposito di scorie radioattive, dal No Dal Molin al No Ponte) tanto che è ormai impossibile classificarle come grette, egoistiche reazionarie espressioni di quell’atteggiamento definito come NIMBY (Not in My Backyard). Esperienze ricche, estranee ai costrutti politici-istituzionali, nelle quali si ritrovano cittadini che non hanno mai svolto attività politica; ma anche esperti le cui competenze mettono in grado le comunità di demolire gli assunti tecnico-scientifici grazie ai quali si sono state giustificate certe scelte.
Non si tratta solo di forme di resistenza rispetto a scelte compiute contro la volontà dei cittadini. Ci sono infatti in positivo tante esperienze che si fondano su un diverso rapporto col territorio (Gruppi di acquisto solidali, filiere corte, cooperative sociali, orti sociali ecc.) tanto che ormai “esiste una contrapposizione fra un senso comune consolidato che vede ancora il territorio come variabile dipendente dello sviluppo economico e un senso comune basato sul riconoscimento dell’identità e dei diritti del territorio” (Paolo Baldeschi).
Queste stesse esperienze e le riflessioni di tanti studiosi rendono possibile oggi di ripensare il territorio come “frutto di processi coevolutivi di lunga durata fra civilizzazione antropica e ambiente, è un immane deposito di sedimenti materiali e cognitivi, un’opera edificata col lavoro di domesticazione e fecondazione della natura, “oggettivato” in paesaggi, culture saperi che si configurano come patrimonio collettivo, dunque “beni comuni” per eccellenza” (Alberto Magnaghi).
D’altronde ripensare il territorio come patrimonio collettivo è necessario alla luce di due fattori che caratterizzano la situazione presente. Da un lato la “crisi esponenziale degli equilibri ambientali entro i quali si sono sedimentate in sequenza storica, la narrazione del progresso e di sviluppo fondate entrambe sulla crescita economica illimitata e sulla tecno scienza”; dall’altra la crisi economica finanziaria “che ha messo in causa le variabili strutturali della crescita economica globale in quanto fattore produttore di ricchezza”.
Tutto questo è vero anche in Calabria dove ormai da diversi anni si vanno sviluppando esperienze partecipative che designano inequivocabilmente una nuova (o una ritrovata) attenzione verso il territorio.
Vale per i movimenti contro la realizzazione di strutture per la produzione di energia o contro mega-infrastrutture e insieme la ritrovata sensibilità verso la produzione di alimenti in un ambito territoriale definito e la costruzione di filiere corte, l’attenzione a frutti, piante e sementi destinati all’estinzione. (dal Comitato per la difesa della Calabria Franco Nisticò, al comitato no carbone Saline Joniche, dal Forum Stefano Gioia di contro la centrale del Mercureal Comitato civico Natale De Grazia di Amantea; dai gruppi di acquisto solidali ormai presenti in tutta la Regione alla crescita di attività agricole legate al mercato locale come l’esperienza della Coldiretti).
Questa nuova attenzione ha in Calabria la specificità del rapporto che i suoi abitanti hanno avuto con il loro territorio (o meglio i loro territori). Si può, semplificando molto, affermare che i calabresi in questi ultimi decenni sono stati forse i suoi peggiori nemici (e i politici locali li hanno saputi ben rappresentare). Certo hanno avuto buone ragioni per odiare e dimenticare questa terra, dura da lavorare, sulla quale si è “buttato il sangue”. Ma perso il rapporto con il territorio si è perso anche il riferimento collettivo alla comunità e i luoghi sono diventati di conseguenza opportunità da sfruttare più o meno legalmente. Le conseguenze sono sotto i nostri occhi.
Porre al centro il territorio come patrimonio, bene comune proprio delle comunità che lo abitano, significa prima di tutto fare i conti con gli eventi, la storia che li hanno definiti in quanto tali. E in Calabria questa storia vive ancora nel nome dei luoghi nei suoi assetti, nelle sue caratteristiche colturali, nel paesaggio. E’ la storia secolare delle comunità la cui sopravvivenza era fondata sugli usi civici e le disponibilità delle terre demaniali. Le comunità, proprio perché quei luoghi che abitavano fornivano le risorse necessarie alla sopravvivenza, di quei luoghi avevano cura attraverso l’attenzione al sottobosco, la costruzione di terrazzamenti, il drenaggio delle acque. Attività dense nel loro svolgimento di una sapienza sociale accumulata per secoli.
Ritrovare la centralità dei territori significa prima di tutto ricostruire quella storia. E questo comporta anche costruire una mappa degli usi civici e delle terre demaniali. Ricostruire le loro vicende, i passaggi decisivi (per esempio le leggi eversive della feudalità) e non ultimo definire la situazione attuale. A oltre settant’anni dalla legge (del 1927) che avrebbe dovuto definire la questione degli usi civici e delle terre demaniali in Calabria non esiste nessuna mappatura. Molte sono le aree e i terreni di recente usurpazione (basti per tutte la vicenda delle coste della regione). La legge regionale del 2007 - il cui scopo più o meno esplicito era quello di una”sanatoria” di tutti gli scempi compiuti - che avrebbe dovuto definire lo stato giuridico di tanta parte del territorio non è mai stata attuata.
Oggi la questione torna di prepotente attualità proprio perché le istituzioni nazionali e locali hanno individuato in questi beni le ragioni di far cassa.
Il Convegno vuole essere un’occasione per riproporre, proprio in un periodo in cui emerge l’insostenibilità di dell’attuale modello di sviluppo, una nuova centralità del territorio di cui devono essere protagoniste le comunità locali, gli amministratori locali, studiosi ed esperti. Nel Convegno potrebbe essere definita una sorta di Carta di principi per la salvaguardia e la cura del territorio in Calabria

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